“Le diverse circostanze fisiche che evidentemente influiscono, cambiano, recano, tolgono, accrescono, scemano, diversificano le passioni […] indipendentemente affatto e dalla volontà e dall’assuefazione”
G. Leopardi, Zibaldone 3205.
Sotto l’egida del mistero Alessandro Moscè, nel suo ultimo libro, Il talento della malattia(Avagliano 2012), prova a spiegare l’alquanto improbabile vittoria del protagonista adolescente contro un tumore, il sarcoma di Ewing ischio-pubico, che non dava, nel 1983, che minime speranze di sopravvivenza. La vicenda narrata è in tutto e per tutto autobiografica. È lo stesso Moscè il bambino del quale è ricostruita non solo la storia ma la sensibilità.
Il tempo dell’infanzia e dell’adolescenza si saldano, senza esserne traditi, allo sguardo dell’adulto, del romanziere che non cela né il suo presente, né i suoi giudizi sul passato, attraverso i numerosi, tecnicamente manzoniani, interventi d’autore. È l’adulto, infatti, che scrive offrendo le sue parole alle prospettive del bambino: Fabriano, “una città disadorna, in estate deserta sotto i campanili che svettano e in inverno sotto i fumi dei fabbricati che si alzano in un cielo di piombo, prima grigio e poi dilatato nella foschia che avvolge una strana atmosfera di periferia”, e aggiunge il suo commento: “Una capitale dell’elettrodomestico oggi in crisi epocale […]” (p. 26). È dunque l’adulto che racconta ciò che è stato utilizzando il passato remoto, mentre il bambino si fa protagonista, al tempo presente, soprattutto per mezzo dei dialoghi: “Un giorno mi decisi a chiederlo appena finita la ricreazione. Alzai la mano e presi la parola tra lo sgomento della classe. -Suora, io mi chiedo perché Dio non si fa mai vedere. Vorrei una spiegazione, se possibile- Suor Melania prima arrossì, dentro quel viso tondo e liscio, poi disse con tono dolce ma deciso, che non si poteva credere solo alle cose che si vedono. -Ma Dio fa anche le magie?- insistetti”(pp. 28-29). Il passato ha preteso da Moscè la rendicontazione, si è imposto come necessità di essere posseduto attraverso la sua scrittura: “L’ossessione della memoria è inguaribile” (p. 10). È quindi, per l’autore, la memoria che incide sul presente, lo modifica persino: “Sono diventato uno scrittore perché mi sono ammalato” (p. 130), nella bergsoniana percezione del tempo come durata e circolarità: “L’epicità della memoria è un’ombra che ci segue, che si muove dietro di noi. Un’epicità che permette l’identificazione con l’altro, con gli altri. E con noi stessi, quando eravamo altro. […] È nella memoria che si vive” (p. 10). Partecipiamo quindi, attraverso le pagine del libro, non solo al racconto di un’esistenza che si dona al lettore, ma a quella di un uomo che ha sentito impellente il dovere di “vuotare il sacco” (p. 12), di “uscire allo scoperto” (p. 100). Ed eccoli i ricordi che ruotano intorno alla passione “in controtendenza” (p. 36) del bambino marchigiano per Giorgio Chinaglia e la sua Lazio, passione che fa da sfondo, quasi dominandoli, agli affetti, alle conoscenze, agli ambienti. Ma a tredici anni l’adolescente scopre “una montagna sotto l’ombelico. […] Fino al giorno prima la montagna sulla pancia non c’era. La toccavo, la spingevo. Dura, gonfia, specie nel mezzo. Ai lati erano le ossa del pube che la fermavano. Aveva una forma rotonda, come un bombolone, ma non poteva essere piena di crema”. (p. 112). Il tumore costringe al calvario, e calvario non solo proprio: negli ospedali, specie in quello di Bologna, l’Istituto Rizzoli, bimbi e giovani muoiono, e non è fantasia. È quella parte dell’esistenza che i più tentano di esorcizzare, relegandola in un altrove del quale non si fa parte. A tale altrove Moscè è invece appartenuto e ce ne offre una sofferta testimonianza. Dal sarcoma di Ewing ischio-pubico non si guariva, o perlomeno si rischiava l’amputazione degli arti. Ne è consapevole l’adolescente: “La ciste poteva diventare come il fungo di Hiroshima” (p. 126). Poteva, appunto. Contro ogni aspettativa, dopo aver fatto della malattia la propria quotidianità, Alessandro è invece guarito: “La stessa domanda mi insegue da trent’anni: come si può guarire da una malattia per cui è messa a repentaglio la stessa integrità fisica, la guarigione? Oggi sembra che la medicina sia propensa a ritenere lo stato psicologico dell’individuo come un elemento addirittura determinante. In passato non è stato così. All’Istituto Rizzoli si sono registrati due soli casi di guarigione su una casistica di cento individui colpiti da un sarcoma di Ewing ischio-pubico, fino al 1984. Uno dei due guariti sono stato io. Quindi non si è trattato di una guarigione inspiegabile, ma altamente improbabile” (p. 186). Neppure in questi anni di “adolescenza strozzata” (p. 182) Alessandro ha abbandonato la propria passione per Giorgio Chinaglia, ed è stata proprio questa ad avere avuto, secondo l’autore, un ruolo preponderante nella lotta contro la malattia. Aristotelicamente la passione è sentita dunque come un’affezione dell’anima con il potere di incidere fortemente sul corpo. E così il pathos, del bimbo prima e del ragazzino poi, riesce in ciò in cui gli stessi medici non confidavano, accompagnandolo verso una completa guarigione. L’espressione chiave del libro: “la motivazione antagonista” (p. 100) assume quindi il significato di trasformare in forza la debolezza: Giorgio Chinaglia è ciò a cui tendere per distrarsi dall’ossessione della malattia, è la “virtù di una difesa” (p. 100) e rappresenta indubbiamente, nel libro, la sanità. La passio, l’affectus per Chinaglia e la sua squadra si legano nel titolo alla parola talento che, etimologicamente, indica l’insieme di doti intellettuali, simbolo dei doni dati da Dio, quasi che quel Dio che non si vede e che angoscia per questo già il bambino, avesse preordinato per lui sia la condanna che la salvezza per mezzo della passione per il calcio e uno dei suoi idoli. Le due parti in cui in libro è diviso mediano con equilibrio tra gli ardori infantili del bambino e le sofferenze nell’altrove dell’adolescente, ma come sottolinea Franco Brevini in quarta di copertina, la vicenda autobiografica non si risolve in se stessa e Moscè non rinuncia nel libro a “raccontare il mondo. Non tradisce, cioè, la funzione del romanzo.
Norma Stramucci