“Rinascita”di Claudio Damiani

Claudio Damiani
Rinascita
Fazi Editore

Ciò che appare alla vista è la realtà, ciò che la manifesta è la verità, la qualità originaria di ogni cosa che Damiani sa narrare da sempre con garbo e tenerezza.  Ciò che appare e ciò che entra nella mente del poeta, è lo stimolo sensoriale che inizia il suo lungo viaggio in ogni area del cervello, pronto a ricomporre le immagini fedelmente amate. Qui il lavoro di selezione, di etichettatura, di giudizio arriva insieme ai ricordi, ai colori, ai profumi e alle emozioni, all’infanzia primigenia e di lì si muove fino alle porte della coscienza dove accade qualcosa di magico. Si spegne l’aria del giudizio e della categorizzazione e si accende l’area che produce endorfina e serotonina. Vi è quello stato di grazia per cui il richiamo delle cose e l’empatia con esse crea una nuova propulsione che arriva fin sulla soglia dell’io e il pensiero pesato e pensato dall’intelletto spegne i motori.  Escono le rêveries che volano alte sopra il pensiero e l’esperienza: lo stimolo sensoriale esogeno ed endogeno (sesto senso) subisce la sua metamorfosi e la nuova creatura si fa diversa da ciò che lo stimolo stesso ha percepito, tutto si è trasformato nella nuova stagione dell’immaginifico, del ricordo stesso che pure cambia il suo vestito. Tutto in questo libro sembra avvolto in un nuovo sogno che risponde ai versi di una intera vita. Si va dalle prime emozioni al sentire propulsivo e profondo che ha compiuto il suo ingresso negli anni e non come inganno della mente ma come riconoscimento vero e autentico del percetto.

«Mi avvicino a Bianca e sto per darle un bacio sulla bocca, lei si scosta e dice: – Ehi che fai? Siamo piccoli noi -. – Si, in effetti siamo piccoli -, dico io, – scusa –

Il nutrimento raddoppia quando è l’anima a parlare col mondo a ricostruire il senso delle cose, ad abbracciare quasi fisicamente ogni albero e ogni altra creatura della natura, come in un sogno. Damiani è il poeta che contempla e anima ogni elemento della natura, è impregnato lui stesso di natura. È lui che porta fiori sulle ferite del mondo, sui dubbi, sul senso di ogni cosa e questo suo spiccato sentire, questo suo fūhlen coordina le immagini, le domande, le risposte, la delicatezza dei sentimenti, la gentilezza fatta di una estenuata umanità. Nei suoi versi si condensano la dolcezza del mondo ma anche il contraddittorio che teniamo per mano ogni giorno. Negli eucalipti che ornano il «villaggio della miniera» ci sono tutte le promesse della terra e quelle del poeta fanciullo. Il ricordo si celebra in un giardino fantastico. I versi camminano a piedi nudi su quelle strade bianche dove ai lati l’erba attende pazientemente il suo ritorno. E i primi baci a «Bianca», le prime carezze a Tamara (il cane), il primo volto dei paesaggi che stordisce e non si dimentica, tutto sembra restare intatto nel tempo, in un bagliore di coscienza che non sembra fuggire dal reale, lì il sognatore è presente. Nei versi cresce coerentemente all’immediatezza assoluta dell’esperito una presa di coscienza senza tensioni sull’inesperito. Nel corso degli anni (da La Miniera a Eroi a Poesie a Il fico sulla Fortezza a Cieli celesti a Prima di nascere) il pensiero è consapevole di assentarsi per una trasformazione in «spirito», in qualcosa che nel sogno non fa addormentare i fatti ma ne libera il senso, il colloquio vitale finché il percetto sia adesione assoluta all’immagine che stupisce:

«Ricordo che lei aveva paura che le persiane chiuse, ancora di un bel verde e quasi integre, si aprissero all’improvviso; come se la casa, con gli occhi chiusi nella sera, e nella notte, all’improvviso li spalancasse.»

 Il bisogno di raccontare è il ricordo che si afferma a vantaggio del futuro. L’immagine della casa si umanizza e si anima fino a un colloquio fiabesco col poeta. La descrizione accurata e minuziosa del «villaggio della miniera», di quei primi anni di vita è fatta in prosa; si animano fatti e paesaggi e tornano nei versi gli oggetti familiari che incoraggiano il poeta a pensarli e poi …  le prime scoperte e la bellezza di tutto quel mondo che si ricorda come il bene che ci tiene al riparo da ogni male:

«Sotto il ballatoio degli uffici, la bassa costruzione accanto alla mia casa, fioriva la lonicera, o caprifoglio.  Erano cespi rossi o bianchi, ma prevalentemente rossi e noi bambini strappavamo i tubi dei fiori per succhiare lo zucchero. A volte non ne sentivamo niente, a volte appena un po’. Il fatto che dentro il fiore ci fosse lo zucchero era una cosa che mi colpiva molto. Chi ce l’aveva messo?»

Questo parlare bambino che resiste e spezza la dura crosta degli anni, rende visibile l’infinito di ogni cosa. E il desiderio di conoscere guarisce improvvisamente dentro le voci dei bambini e lì si incanta la parola perché «ogni giorno si susseguiva vivo a giorno vivo, e intorno alla mia casa, e dentro, potevi sentire le voci, potevi sentire gridi di bambini e richiami di madri.» Tutto nel pensiero del poeta adulto sembra destinato a rifiorire con un verso che ha in sé tutto il potere archetipico dell’infanzia È un verso limpido e chiaro, elementare nei toni e nelle vibrazioni tenere e sincere, così le «aiuole e i fiori».

«E che quelle farfalle e quei fiori evocassero ancora, o trattenessero quasi, quelle voci di bimbi e di madri, come se quelle voci, come erano ancora i fiori e le farfalle nell’aria, fossero ancora nell’aria.»

E l’aria sembra trattenere ogni cosa, ogni forma, anche il tempo, e questa stessa aria dà forza e respiro al presente. La vita domestica dove «razzolavano le galline» si unisce alla bellezza della natura, ai fichi d’India che fanno da confine ai terreni che arrivano fino al mare.

«Guardando dietro il pollaio vedevi il lungo Gargano, quel primo balzo dritto e lungo che sembrava una montagna e insieme un cielo, era una terra alta, una montagna spianata dal cielo. O forse un mare alto? No, direi che casomai era una terra alta, celeste.»

Sembra, questo di Damiani, un dettato governato dai piccoli occhi delle melagrane spalancati sul verde. La parola è gentile, ubbidiente al ricordo e alle domande. E l’aria è ancora la figura centrale di quel villaggio che si fa mito e «Se continuo a camminare sento l’aria entrarmi per le narici e baciarmi le guance.».

Il rapporto di Damiani col luogo è, dunque, mitobiografico, evocativo e magico, affettivo e colloquiale.

«Farfalle perché mi ritornate davanti, che volete? Lasciatemi stare./- Noi ti ritorniamo davanti perché tu ci vuoi dimenticare.» È l’io che parla al «bimbo pauroso» di ieri, alle «farfalle della sua infanzia».

Le domande sono le stesse di ogni bimbo e di ogni essere: «E prima di nascere dov’ero? Sospeso forse nel vuoto?»

Tutto sembra essere in fiore in questi tanti, tantissimi brani e per sognare e ridestare farfalle e frutti bisogna comunicare con essi nel modo giusto. Ogni pianta e ogni creatura viene celebrata come promessa di un entusiasmo nuovo. Davanti ad ogni fiore e davanti ad ogni frutto c’è la felicità dell’infanzia eterna che sempre fa rifiorire l’animo umano.

Il poeta è un uomo solitario di fronte a un simbolismo aperto, ai mondi vissuti e sognati di nuovo che si toccano. Essi sono sullo stesso piano e approfondiscono l’essere, la volontà ostinata di animare e di sentirsi animato dai luoghi. In questa opera l’io è lucido e lascia alla rêverie il compito di elaborare il sogno, lo spazio più adatto a costruire poemi. E dunque la tessitura è fatta di tanti poemetti con tutte le illusioni benefiche delle epifanie. E noi che leggiamo ci troviamo a condividere i fatti e le percezioni e le emozioni che non abbiamo saputo esprimere. In questo tutt’uno del luogo con l’io si respira un’aria di pace, uno stato semplice che ci libera dalle costrizioni della lingua e ci dà la convinzione che ciò che arriva dal reale ha bisogno della materia onirica per essere il percetto. L’emozione del poeta ci commuove e il suo entusiasmo, ci porta nell’intimità della epifania solitaria che stimola e dà gioia. Restituisce la qualità delle nostre prime rêveries. E tutto supera quel che il poeta ha vissuto. È una «rinascita».

«Anche io, Claudio, ho tante paure, e anche a me sembra bellissimo qui, però adesso non saprei dirti perché. Tu me lo sapresti dire perché qui è così bello?», dice Bianca. Sì, te lo dico. È perché quando esci, la mattina, c’è quest’aria meravigliosa, che mangeresti e la vorresti odorare tutta. E quel rumore dei fili della luce, o della centrale elettrica, potrebbe dar fastidio ma invece non dà fastidio. È la forza stessa, l’elettricità dell’aria. È il rumore del tempo che non si nasconde, è tutto nudo e scoperto e ti fa vibrare anche a te, ti attraversa dalla testa ai piedi. E poi, vedi, quando io esco, sento l’aria, la luce, prendo la bicicletta e vado. ma vedi è proprio questo: che esco. Questo è un luogo in cui tu esci nel sole!»

Rossella Frollà

Claudio Damiani, note sull'autore
Claudio Damiani, note sull’autore

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