Gian Mario Villalta
Dove sono gli anni
Garzanti, 2022
Un libro intenso, colto e profondo, che pare non ascoltare nessun’altra voce, raccoglie il tempo degli anni, «pagine oscure» che non bastano, «un futuro migliore di speranze non tue». E, intanto, «Viene luce più tardi. Il cielo rimena/macerie. L’erba è stremata. Tu non capisci tutto/ma sei sicuro che capiscono te/le parole che un uomo ha scritto e ti immagini/la sua vita, con quei pensieri, la pianura,/e la città di ferro che ordina in cerchio l’inverno,».
Il tempo come la coscienza è testimone e custode della Verità. E la Verità, come il Caso, il Destino, la Provvidenza, fa parte del Sistema, di una Unità cosmica, dell’Ordine ontologico che richiama a sé ogni creatura e ogni moto. È questo un viaggio nei paesaggi del mondo e nell’intimo dell’essere dove «Per imparare bisogna essere umili. Ma è la vita il gran docente». Queste le parole di Dedalus nell’Ulisse di Joyce. E Villalta segue questo percorso nella narrazione della coscienza, dei sentimenti, delle emozioni e del sentire forte ogni cosa che provoca l’idea.
È una parola che non si libera del disagio della realtà e la Verità è a proteggere le ferite aperte, a medicarle con la luce di quel bene primigenio che fluttua da dentro e trasporta le penombre e le fluorescenze di tutte quelle fragilità che ci passano accanto negli anni. Il mistero amaro del contraddittorio non viene meditato né creato ma si forma da sé. E così il verso ritma gli ultimi battiti del padre del poeta: «abbandonata la mano sulla tua ti guardava/tuo padre con tenerezza mai conosciuta prima./[ … ] come se eri tu/che te ne andavi per sempre, come se eri tu a morire.».
Il tono basso e persistente della voce che discende nel limite, nella diminuzione non è di cero incoerente con quelle emozioni e quei desideri che attraversano la pace. L’imperfezione può generare il digiuno dell’intelletto, il digiuno spirituale, tuttavia porta con sé quell’inevitabile nutrimento dell’anima che si fa salto qualitativo, evoluzione che permette di comunicare alle creature terrestri una più grande intensità e pienezza di vita. Il contraddittorio entra in azione e si fa armonia nell’Unità poetica che la parola di Villalta crea in modo sorprendente ad ogni incrocio.
È l’imperfezione che genera la scelta dell’essere umano, quella «fantastica» imperfezione che riforma le nostre relazioni dirette con la Natura e col mondo, secondo una metamorfosi che corregge la visione egoistica dell’individuo stesso. In questa raccolta emerge una tendenza involontaria, quasi aurorale di una forza unificatrice che parla con le metafore legate spesso alla natura. E il senso della vita, della morte, il male universale, il caos dell’urto col mondo e lo stupore, la meraviglia per le forze attive, propositive, per la Bellezza, sono quella legge universale, quell’ordo amoris che regola l’Ordine Ontologico a cui il poeta sente di appartenere insieme alle altre creature del pianeta.
Nasce da questa fantastica consapevolezza il viaggio di ciascuno nel tempo e si fa singolare e universale: «Se penso al tempo mio diventa ora di tutti/- il tempo- se mi perdo nel tempo ridivento io.». E, dunque, il tempo scorre per tutti e corre per ciascuno e la vita promette sempre «il candore/sfacciato degli sposi». La parola ferma il senso del mondo e lo forma malgrado la volontà degli esseri che non sanno niente di questo senso ma da esso sono attraversati. Una legge attraversa l’istinto attratto da questo sentire il mondo che esige la rinuncia dell’uomo all’isolamento e la ricerca di se stesso in tutti, come abitanti della stessa casa.
Per il poeta siamo dunque famiglia che si propone a vantaggio della specie, siamo quel bene che si afferma contro tutto ciò che la nega. In ciascuno c’è il crudo inverno ma «ci sarà sempre la pelle della/primavera». Il Tutto che agisce nella natura animale come forza esterna accoglie la realtà interiore come idea e l’uomo, il poeta, abbraccia tutto come idea in un tempo che lo lima e lo forma. E l’idea si incarna nella parola e la parola si incarna nel richiamo del Tutto.
Residui pigmenti inseguono la coda dell’occhio
inghiottiti nell’ultimo abbaglio dove lo sguardo
sconfina la luce e quasi è già immaginare.
Figure care del vivere, voi che foste sempre
un tempo, la prima volta già state
foglie, braccia levate, pane.
La terra arata che la pioggia di giorni uguali
fa scura, tenera, buona
e ripiena di semi, di uova, di sogni
molli come le palpebre di un bambino
che ha pianto a lungo, sognando
gli eroi, supini nel vento e nel rosso violento
dei papaveri. Campo di cenere, è inverno
da generazioni.
[ … ]
luce bianca dell’Est
schiera le mani di tua madre – che cos’è tuo,
cos’è sempre?
Ingenuo più volte smarrisce il secolo.
Il desiderio con gli occhi dell’attesa guarda il poeta: è la possibilità che abbiamo di rendere visibile l’infinito, ma si sa, il desiderio non guarisce, anche dentro gli «applausi» perché la maglia non è sempre la stessa e «l’impostore,/con la maglia di un’altra vita» è comunque chiamato a battere il rigore.
L’attesa e il senso di responsabilità sono strette dal morso dell’ansia, ma qui dove l’essere è ferito, la parola cura e dà una felicità mai provata prima nel mentre crea la rêverie che vola alta sopra il pensiero e l’esperienza. Qui la parola scocca la sua freccia e la ferita che provoca è sempre fertile, segue la curva del tempo prima di toccare l’essere «perché da sempre il tempo venera/la lingua mortale,/perché di gioia trema/l’umana gloria e sanguina.». A una donna il poeta parla, alla figlia, e l’idea che si incarna nella parola è la sua offerta di sé che accoglie e scava l’ombra: «i tuoi pensieri//scava, trova l’ombra, oggi, qui, anche mia.».
Ognuno di noi è il risultato del tempo, è un dono che viene da lontano, da quella parte di ogni persona che abbiamo incontrato e che ci ha formato nella vita; è l’iniziativa del Dio e l’inchiostro con cui lui e il mondo scrivono la nostra storia. E poi le stagioni invadono gli anni, l’infanzia e il suo calore primigenio, l’adolescenza con le sue promesse invisibili e l’intuizione dell’ignoto, la luce nuova della maturità che pare scoprire quell’ignoto. Qui la parola non può smemorasi del grido che arriva di lontano, non come eco nostalgico e disperato, ma si lascia attraversare e quasi accenna un saluto. All’Ordine, così com’è ciascuno dentro l’altro innestato.
«Non sei tu, ibisco, non sei tu, ma prendi
Nella mia voce parola, nella mente,
come ogni cosa che vedo e sento. Ti importa
se non sappiamo che cosa siamo io
per te, tu per me, per tutto
tu e io l’universo?»
Per un istante mi è sembrato di leggere Claudio Damiani, mi è sembrato di ascoltare il suo parlare bambino con la Natura e poi «La solitudine della specie dominante» si emancipa in una umana comprensione del Tutto, quando ogni uomo con la sua coscienza può far suo il senso del mondo e dunque può da se stesso, con la sua volontà unirsi con esso, con ogni creatura, e allora l’idea astratta, esteriore del Cosmo diventa interiore. Vale a dire l’uomo si congiunge al Tutto, a quest’Ambiente Divino per sua scelta, rispettandolo, per quanto gli è possibile, e da qui la parola del nostro poeta intuisce la vera attuazione del senso del mondo.
Rossella Frollà