Le campane di Silvia Bre

le campane silvia bre

di Rossella Frollà

Silvia Bre
Le campane
Giulio Einaudi Editore, 2022

le campane silvia breÈ una promessa di compimento «stare alla notte/e cavarne un linguaggio», la parola maturata nella spremitura. Il dettato denso, intenso, sapienziale, autentico, ha l’orecchio assoluto, non vi è nulla di superfluo. La parola costruisce sulla diminuzione per cui sembra essere preparata. È «l’origine» il patto con la parola stabilito altrove: «È da lontano che viene, e non per noi/arriva e fa pensare che fosse qui/da prima/e prima di muovere commuove/mentre sembra che cada/come accade a noi/stessa voglia di spazi, stesso firmamento/da rinchiudere perché stia vicina/perché sia imprendibile. /È l’origine.».

L’incompiuto anziché condurre alle soglie del nichilismo schiude un nuovo significato «essere stati il futuro di qualcuno». E allora il compimento è nella posterità, nell’azione creativa concreta, terrena della parola, con l’immenso slancio, «congiunta all’incompiuto, muta, immersa» nel totale affidamento al richiamo di ogni cosa, alla regola della qualità originaria che da ogni cosa grida. In questo processo evolutivo la Bre sfodera quella sensibilità capace di intuire l’azione creativa, la forza, senza fermarsi: «C’è una forza che tiene e ha una forza/che tira avanti come un animale/non chiede niente e si prolunga buia/nel suo buio venire in mezzo al mondo/travolge tutto dalle sue radici/ [… ]/averla dentro leva da se stessi/come va via da te quello che dici.».

Quello del mondo è un volto pieno di promesse e il contraddittorio perde la sua estetica convenzionale, si presenta all’occhio nel suo eterno consumarsi che trascina tutto: «Ma vale/questa pena di girare/l’ingombro di me stessa, il consumarsi/del sasso che si saluta a ogni urto dell’acqua/e da fermo congiura con la fine.». Eppure davanti al limite, di fronte a una esistenza assediata da modelli individualistici «ciò che sono/vuole entrare nel paesaggio, l’occhio/trasuda desiderio» che è la possibilità di rendere visibile l’infinito sia quello che abbiamo dentro sia quello del mondo. L’atto divino umano esce dal sé: «Dal tempo dove tutto muore sale l’immagine/una misericordia. Tutto trova espressione, anche l’istante che passa con la colpa di restare attaccati a noi stessi. «Tutto il corpo terreno che si alza» è nell’aquila, in chi sa volare. In questa pagina nulla è mai privo di colonna sonora e ogni cosa urla il cielo. Anche la colpa che resta attaccata alla scelta «trasuda desiderio» e «come è sola la vista» che vorrebbe entrare nel paesaggio. Così alta è la temperatura dello sguardo che non riesce a contenere la pienezza del tutto: «Che venga a prendermi ogni luce/o anche un giro di vento, che plachi/il silenzio della mia comprensione assoluta.». Una visione anagogica, capace di vedere diversi livelli di realtà, condensa la prospettiva personale molto ampia e complessa. Lo sguardo ha un carattere espansivo e contemplativo capace di far maturare i semi del mistero e della solitudine: «Solitudine corona della vita/la tragica elezione che vanta mentre va/e incanta tanto è mite la sua luce.». La tensione aurorale che investe di luce più intensa e coerente il sentire è capace di cogliere qualcosa in più nei diversi livelli del reale, quel livello ulteriore che è la possibilità. A un primo sguardo può apparire stridente e opaca ma capace di provocare il primo movimento interiore, motivo di cambiamento dell’essere fino a sfiorare nella Bre i limiti posti agli estremi della sua personalità: «Da qui la riva è una fantasia, un fantasma/che ci ha deposto al largo per farsi guardare/e intanto si rintana sul fondale, il mare/invade tutto il lago. /Ad avvistare la scena/solo queste parole.». La narrazione si arricchisce nel mentre i movimenti misteriosi della grazia dettano le rêverie che seguono quel patto d’onore con la parola.

Essa è legata da vincoli di parentela profondamente radicati alle cose e alle distanze che ci chiamano. Il suono delle campane fa la cosa giusta e si mescida all’intuizione della misericordia, a un sentire più profondo i temi arcaici dell’uomo. Vi è quella metamorfosi dei rintocchi che si fa slancio materno verso il mondo, verso il bene primigenio. Il valore salvifico crea l’armonia del contraddittorio e scarta ogni orpello, ogni superfluo rintocco.

La campana suona in nome di una circolarità che vibra per tutti e torna a se stessa ogni volta, perché esiste per sé e da sé ancora prima di ciò che dilata e propaga col suono. L’istante che vibra si fa eterno e rivela il sapio, il gusto della qualità originaria che snebbia la mente e il cuore e si rende responsabile di un più alto livello di coscienza. Il sé arriva fin sulla soglia dell’io ricco di ogni sua risorsa, di ogni esperienza fatta e di ogni conquista amata e sofferta. Si crea una vera e propria deflagrazione da cui nasce quell’Unità poetica che sola ci fa percepire il legame che ci unisce e si fonda sul limite in quanto esseri umani. E il limite nel suo significato più ampio di «nave negriera», della fine e del male, dei naufragi, della nube di piombo che risuona nel mondo, dell’inganno che ci fa soli contro il cielo, ci chiama, e noi, lì, a raccolta, dove vibra la campana, nel cuore originario, oltre il limite, a sentire: «pensavamo che quel nuotare vivi bastasse/a entrare nelle menti, essere visti/nero fiore dell’acqua nella notte, nello sciame di onde,/[ … ] Nessuno mai/riposa in pace sul fondo di menti senza pace/il vostro eterno il nostro (la perla dell’occhio svuotato dai pesci/cinque metri più sotto.».

La parola dunque risponde «a un attimo di senso/e l’attimo nel suono pare eterno». Ogni distanza rimbalza e riconsegna il tutto, la Storia, «la vertigine di spine», quel che uccide. Ma la rosa va oltre i confini a finire l’opera, perché siamo fatti di cielo.

L’intuizione è una folle tentazione che «nomina il tuo centro», «è un’altra l’unità da pronunciare,». Quando l’anima si trova a metà del suo percorso, quando la mente ha acquisito la superiorità rispetto ai sentimenti, allora, precipita dove «il reale impazza» e subisce la forte tentazione dell’orgoglio che disorienta: «Ti sarai vista in me farti di bronzo/il ripido sonoro di una torre che/domina e batte.». Ma è anche vero che ogni tentazione fermenta il nuovo e in esso il corpo d’aria ci insegue: «Chi ordinava in parole la tua fuga ora t’insegue/tra chiome d’acqua, precipita/nel corpo d’aria migrante dove il reale impazza, /il torace fisarmonico.». Qui la parola chiede il riconoscimento, l’importanza dell’io che ha scavato il suono e cerca la nostra importanza negli occhi degli altri, ma: «Se mi avvicino svanisce, la cima dondola/il tempo. Mediterò a lungo il movimento/che rovescia in me la sua rapina». Così nasceva, /scudo di nulla, in gloria/ma dalla cima che dondola al nulla scudo,/campane,/il tormento di trovarsi/ancora fuori e dentro, da non esserci/che in gloria di un’invenzione del vento/gonfia,il risplendere lento che fa la materia.». Tanto più siamo legati alle cose e alla nostra tendenza ad avere valore agli occhi degli altri tanto più aumenta la tristezza che si fa strada nella disillusione poiché, come intuisce la Bre, la verità in cui dovremmo vivere non è nel bene originario ma nella vanità, nell’aria che migra e nelle distanze che crea.  È sempre la stessa campana che percuote e «viene/a svuotarci», è la «lingua celeste» dell’istante che forma e sparisce. La nostra voce viene meno al mondo come la luna devota al vuoto e si insegue la fine, la più coerente e immutabile delle realtà. Lì, dove poco prima della disfatta, si contempla lo stupore che è anch’esso elemento coerente e immutabile nell’azzurro del cielo. E in questo arcobaleno che ogni volta la schiuma inghiotte c’è il meccanismo universale, l’essenza unificatrice con le cose che dispiega una speranza che va più lontano dell’avvenire e sopprime la morsa dell’attesa. Le parole della Bre non sono mai lacerate dall’angoscia, sono tristi a volte e luminose. Il Silenzio allevia e rassicura, lascia respirare l’io, e si fa risorsa per quei movimenti interiori che curano la pesantezza dell’animo. Vi è in questa silloge uno stato d’animo spirituale che ricerca le orme della gioia, della sua stremata fragilità negli occhi del mondo. Lo sguardo è fermo contro ogni gelida disattenzione. La parola narra e cura e protegge quelle declinazioni esistenziali che testimoniano l’umano anche quando le ombre sembrano oscurare la nostra vita e svuotarla di senso. Qui vi sono le tracce scintillanti della fragilità con tutta sua potenza luminosa, capace di nutrire grandi fulgori tematici.

È questa una poesia alta in cui Spirito e parola si rincorrono e si narrano: «tuoni di nostalgia in un suono perso/che si fa dilaniare a ogni rimbombo». L’incanto è per una parola che non protegge dalla fine ma si fa tenera e fragile. È sola a prendere la luce con cui predisporre l’avvenire, la nostra motivazione nuova contro la «noncuranza» e la deriva. Il Silenzio si fa nuova possibilità, risorsa che accede alla sorgente, resistenza contro questa fragilità umana che la parola nobilita. E dunque la «cura» e la «carità» si trovano anche nel «ramo spinato».

È questa una parola quieta e disillusa, forte e potente che incontra veramente la vita e, se in essa la fine è una costante, il male non è immutabile poiché ogni atto, ogni desiderio rispondono alla coscienza. Tutto in questa opera sembra un meraviglioso accrescimento di ciò che esiste, pura crescita dalla lama tagliente di struggenti tematiche emozionali. La Bre mostra la vera portata del cuore e del verso.

Attinge alle emozioni più significative della vita, alla speranza e alla tristezza, alla timidezza e alla gioia, all’inquietudine e al dolore dell’anima, ad ogni risorsa che fa parte della sua ricchezza interiore. Lì dove si nasconde l’intuizione dell’indicibile e dell’invisibile e dove ci è consentito di immedesimarci con più facilità nei modi di essere esistenziali degli altri da noi. L’annuncio che rimbalza da lontano è quello dei «nessi che legano».

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