di Massimo Parolini
«La profondità va nascosta. Dove? Alla superficie.», scriveva Hugo Von Hofmannsthal ne Il libro degli amici. Usiamo questa citazione in esergo ad una breve annotazione critica alla raccolta poetica Rivelazioni d’acqua di Camilla Ziglia (puntoacapo, 2021), nella quale ritroviamo un lessico semplice, di comprensione immediata, con poesie brevi che seguono un andamento conciso e sentenzioso, in un dialogo fra anime fatto di brevi proposizioni o brachilogie (come indicava Platone per la Dialettica differenziando tale metodo dalla Macrologia, tipica della Retorica); una silloge coesa e coerente dove, come sostiene Ivan Fedeli nella sua puntuale prefazione, siamo in presenza della «forza nitida di una parola piena», e nella quale, contenutisticamente, «è il lago il luogo d’incontro, la sua lentezza paziente dove tutto si cala, galleggia, affonda, riemerge, in una terra di nessuno, un non luogo dove appartenersi e, pur per poco, meravigliarsi» (ibid.). La superficie del lago si fa metafora della forma, limpida e quasi sempre rispecchiante (pur torbidamente) la profondità simbolica e analogica del suo fondo, dove risiedono i significati da far riemergere, come scrisse Goethe riferendosi allo stile dei propri romanzi, grazie «al garbo della forma». «Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa», ci ricorda S. Paolo (Lettera ai Corinzi, 13,12). E di una descensus speculi si nutre, dialetticamente, lo scorrere unitario dei versi nella silloge.
Siamo in presenza della caverna platonica, con un’entrata che un po’ rispecchia un po’ lascia filtrare in trasparenza, dove le cose si spostano con leggerezza, rimanendo a galla (come scrive sempre Fedeli, riprendendo un bel verso di Ziglia) «con la sapienza di un insetto pattinatore». Una superficie-forma, dunque, cui fa da contraltare dialettico un fondo, talora insondabile, heideggerianamente teso fra grund (fondo-fondamento) e ab-grund (sfondamento-abisso-assenza di fondamento). Ecco che spesso emerge la necessità, lungo il versificare, di innervare radici, allegorie della ratio, della sicurezza del fondo-fondamento:
«Sprofondare largo
farsi terra
respirarne le muffe e la torba
finché non serve più
respirare in questo sentirsi
risucchiare da radici
e proiettare in alto i fusti
fino alle foglie che tremano
che ansimano di luce.»
Ma, ci ricorda Ziglia, si può conoscere kantianamente solo il fenomeno, che si rispecchia sulla superficie dell’acqua, o intravisto nelle sue trasparenze nebbiose, torbide e limose («Tra i flutti è raro lo specchio/ limpido che svela la selva/ delle alghe deformi/ o i segreti dei mulinelli»). Talvolta la superficie non riesce nemmeno a rispecchiare e il lago è «intento a lavorare al fondo»: ciò che galleggia (un legno), è compiuto, defunto («In superficie la calma/ delle cose compiute»).
Dunque le rivelazioni sono sempre rimandi, rinvii, risonanze, analogie vaghe e mai esaurite dall’intelletto che le scandaglia, entropiche; sono le parole all’apparenza semplici e denotative che in realtà velano dicendo, sono semantemi connotativi, di Sibilla che scrive sulle foglie del suo giardino, mescolate dal vento (che «scheggia l’aria del lago»), galleggianti sulla pelle del lago («Una foglia tardiva frantuma/ la bugia dello specchio»); parole di Pizia che risolve, grazie al furor divino (onda dello spirito, energia divina dinamica annunciata dal vento) l’enigma del futuro con parole velate che dicendo nascondono («L’onda presto s’intorbida/ cela e sconvolge»). Perché la verità non può svelarsi intera alla ragione: l’intelletto («chi legge il mondo su assi cartesiani”) coglie solo la superficie fenomenica degli eventi e delle cose, non tiene conto della vita nella sua interezza, della cosa-in-sé, «diagonale della vela” che «sbatte e si ritorce/ inarca e si distende/ libera/ e tutta esposta al vento». Ogni parola che abbia la pretesa di squadrare «da ogni lato/ l’animo nostro informe» ed essere formula che apre a mondi trasparenti al concetto (Montale, Non chiederci la parola, da Ossi di seppia) si rivela «pietra che cade/nello specchio del lago e lo corrùga» (E. Montale, A galla, da Altri versi e poesie disperse), «ciondolo» che scende «fra alghe/ e ciottoli assorti» (C. Ziglia, Rivelazioni d’acqua). Perché la parola connotativa-poetica dev’essere pruina cerosa che copre (e protegge) le bucce degli accadimenti e delle essenze. E lo sguardo del concetto, nell’alone cerulo «che separa/ il chiarore dalle ombre», «non trova».
Montalianamente Ziglia usa nella poesia Incipit (che apre la silloge) il conativo-esortativo «senti», accogliendo il lettore nel suo giardino in sponda al lago (dove vita e morte si confondono, in un alito d’amore) per riflettere e condividere le rivelazioni d’acqua. Ed invita ad essere come la sassifraga, che rompe i sassi e ne occupa le fessure: allegoria, come la ginestra leopardiana, di resistenza vitalistica di fronte alla sofferenza e alla durezza esistenziale che ci accomuna.
Lampeggiano, periodicamente, nella silloge, epifanie di vita, come «i furori della linfa», il «salto dei lavarelli», «una luce rosata sulle nevi di vetta», il cielo violento e invincibile che «lacera/ le proprie vesti», «il respiro della terra», il «fiato quieto del cavallo», il «fremito» che fa «chiaro/ l’infinito». Nella dialettica (ambiguamente) costante del lago, fra fondo e superficie, fra discesa-catabasi e ascesa-anabasi, si rimane sempre in attesa di una nascita («si intravede una culla»): la felicità avviene quando alba e tramonto si ricongiungono («c’è un momento dell’alba/ che torna al tramonto”): un momento che «trattiene il respiro/ come labbra schiuse appena/ per dire/ e non dice» (memore, in quest’ultimo verso, della dannunziana Sera fiesolana).
Il fondo diviene metafora del confuso, della caligine («nube di valle», «nebbia», «tempo bianco», «pulviscolo») che inghiotte le strade e sottrae la direzione, la meta precisa. Meta che in realtà si rivela un transito-strada, che ricongiunge il lago, col suo «odore/ di pesce e alghe profonde», alla casa temporanea. Perché quei vortici di alghe e conchiglie che ritroviamo salendo nei ghiacciai, li ritroviamo confusamente anche in noi, mentre transitiamo, anfibi dell’esistenza, sulla Terra, luogo dove dobbiamo imparare a lasciare e ad aspettare… Cosa? Che arrivi il tempo in cui paolinamente «vedremo a faccia a faccia», fondo e superficie saranno una sola cosa e conosceremo perfettamente? O solo, come ventilato nell’ultima poesia (Explicit) impareremo a morire e ad attendere una rinascita?