di Davide D’Alessandro
Recensione pubblicata il 13 maggio su “I Fatti del Nuovo Molise”
Chi conosce Umberto Piersanti sa che dietro Andrea, il protagonista del suo nuovo romanzo, non si cela, bensì si rivela l’autore stesso, che ha attraversato anche il Sessantotto, senza mai anteporre la politica alla vita, la lotta alla natura, l’odio all’amore, il volantino alla poesia, le grandi dissertazioni su come e quando cambiare il mondo al gusto di inoltrarsi per i campi con una dolcissima fanciulla.
Ha ragione Antonio De Simone quando dice che, in Piersanti, la teologia politica in realtà è ontologia della natura. Non è un caso se l’incipit suona come segue: “Il vento veniva giù dalla pineta e si rompeva contro le immense vetrate dell’aula posta sopra il grande giardino che dicembre aveva spogliato d’ogni verde. Solo qualche minuscola palma estranea e livida dentro il freddo d’Appennino”. Non è un caso se la natura e l’amore ci sono e prevalgono anche quando la protesta infuria. C’è chi vuole cambiare il mondo, come gli amici di Andrea, e chi vorrebbe sì vederlo diverso, ma senza urlarlo, senza affermarlo con violenza.
Il tempo che descrive Piersanti è ancora un tempo gentile, ma già presenta e prepara il colore cupo destinato a sfociare nel nero e, vorrei dire, nel rosso assoluto. Ma i colori forti non sono né di Andrea, né di Piersanti. Urbino ha le mura color miele, i monti che la guardano sono ancora lì, imponenti, mentre la rivoluzione, a parole o armata, non ha prodotto cambiamenti. Ha prodotto violenza, morte, ha consentito, per dirla con Canetti, a qualcuno di combattere il potere e di pretenderlo poi per sé, il potere, come càpita sempre all’uomo da quando è venuto sulla terra.
Le pagine di Piersanti, quelle liriche e quelle calde, quelle dolci e quelle intense, quelle misurate e quelle cariche di passioni, disegnano un racconto vero di quegli anni, che per Mario Capanna furono “formidabili” e per Piersanti quasi “un incidente”, una frattura, un calice amaro comunque da bere, come si è chiamati a bere la vita. Ma Andrea, ma Piersanti, che pure erano presenti dentro il cinema quando, con fare violento, fu impedita la proiezione di “Berretti verdi”, avevano e continuano ad avere un sguardo diverso, differente, riflessivo, pacato, misurato, riformista. Caratteri, impronte, modi d’essere che non s’addicono a coloro che non hanno mai avuto dubbi tra il bianco e il nero, il bene e il male, ritenendo il primo sempre e soltanto da una parte e il secondo sempre e soltanto dall’altro. Ma la virtù, come si è incaricata di dimostrare quotidianamente la vita da quando è vita, risiede nel mezzo, dove sono contemplate le richieste, le sofferenze e le ansie del primo e del secondo.
“Cupo tempo gentile”, edito da MarcosYMarcos, è un libro necessario per chi ha vissuto quegli anni, per chi deve ancora farsene una ragione e per chi, come i giovani di oggi, vogliono indagare il passato per non sbagliare il presente. Anche da quegli anni, complessi e laceranti, è possibile cogliere il frutto migliore, è possibile fare esperienza e ricordare che la vita e l’amore vengono prima della politica e della battaglia politica, che inoltrarsi nei campi, “tra paesi e trattorie, boschi e torrenti, guardare Assisi dal Subasio, quella chiesa semplice e solenne e sotto tutte le case con le pietre bianche, inframmezzate dalle torri” è lo spettacolo più bello del mondo, superiore e mai paragonabile, per ampiezza, per benessere, per estasi, all’occupazione di un’Università, al cazzotto sferrato in faccia a qualcuno o, peggio, all’eliminazione fisica del “presunto” nemico.
Il tempo può essere cupo, gentile, nerissimo e rossissimo. Può essere anche color miele, come le mura d’Urbino. Sta sempre a noi scegliere la tinta.