UN AFRORE
Concedenti favori, ben conducono
sull’elici, giugulari e conche,
e sei proselito, abnegato o audace
dei loro bouquets, ossia tattoo e percing.
Molto promettono sin dal principio
decombenti d’attese, mentre ’bradono
limiti all’anima, sia derma o voce,
sia degli abiti i bordi senza regola.
“Perché il futuro non darà altro ascolto
né altro seguito, e niente c’è infine,
trascorsa l’ora in cui sei vivo”;
son pronte a dirti come pregio puro.
Sono le seduttrici, nonpertanto
un dubitare a te sembri un errore.
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Ho fatto solo solo:
è avanzato, confesso,
il mio egoismo
e il ricordo d’un corpo.
Basta poco dell’uno
o un unghia dell’altro;
dato che dentro stento
a mantenermi vivo.
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Impazzita con indice e anulare
vieni, da sola, vieni crivellata.
E spettatore vuoi avere il glande
che hai svuotato, da solo, tra le mani.
Se essere non si può insieme uno e due,
tu ed io, cosa facciamo dopo il gaudio?
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Nel piatto democratico dell’eros
sai di pane e di zolfo, sei una specie
d’erbaggio e sale, odori ostrica e mosto.
Purché ti si riscaldi laggiù l’ugula,
te la si immoli di gusto e calvario
e stringa in corda dell’insopportabile.
Fino a che urli, e assomigli a una lite.
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A partir dalle scarpe
con le gambe si mettono a parlare,
coi laccetti sensuali, fino a vesti
che d’ogni senso lo spoglio argomentano,
al punto che da togliere non resti
più una sola parola, né una calza;
come gioco di forza, sport estremo,
fra il divieto e il ricetto
di possedere il tutto dentro a un nudo.
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A sommità e orgasmo inerpicando
si è spartita e la sete e la fatica
e la borraccia; poi vuota al ritorno.
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Culmina un petalo bianco sul pene:
quel breve tempo con pace s’attende
che secchi sulla pelle inacidendo.
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Negli entroterra, nei vicedomini
alpestri e suffraganei, infedele
tu mi fottevi tra calde rovine,
privilegio delle 4 onze annuali
del titolo di Santa Maria Bulgaro,
Grande di Spagna fino a Campoformio,
Principe del S.R.I.,
di Bruzzano, Roccella, Grotteria;
Medici d’Ottajano che le vedove
d’Avalos sposano per Montesarchio;
stati d’investiture e monsignori
che sono il nostro evo e per noi pietra
ultima di paragone. Tu la guida,
tu che in fondo ai burroni del piacere
sguazzavi, non giovane, e pertanto
vecchia impostora ma esperta dell’arte.
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Cerca di ricordartelo ad esempio
le volte che mettendoti, io tonto,
con le mie chiavi equestri e sottocritiche,
l’orgasmo imprevedibile
tra le gambe e nell’istinto dell’anima,
dicendoti sei unica per me,
tu a ricambiarmi d’incredulità.
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Assomiglia al limone – hai risposto -,
se non pensi allo schifo, non è male;
fiotti d’uomini in zattera ci immagino
negli spermatozoi in deflagrazione.
Io chiedevo: è buono il boccone
o in bocca è aspra la vita;
è cazzo di cagna tutto il palato,
o in fondo a quella sostanza c’è manna?
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Sì, ho notato: il pavimento in marmo
mimetizza gli schizzi,
come non farci l’occhio?
Ma in te, focosa mia, cos’è nascosto
per scialbare di coito ogni tuo vano?
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Fino a far alba sverginavo in macchina;
non infinita, ma bella la pacchia
poi a letto, nella doccia o in un prato
d’un giorno a festa; e in albergo o palestra;
clandestini, complici, e in qualche affanno.
Oh corpo, oh le mie forze,
più di metà degli anni
a sgaloppare invano.