(Roberto Marconi, 2021)
Potrebbe far parte del lezionario delle nuove celebrazioni liturgiche, le poesie sorte e cintate nell’opera di Francesca Serragnoli “La quasi notte” (MC edizioni, Milano 2020; per la collana “Gli insetti” diretta da Pasquale Di Palmo), la contemplazione è d’obbligo nell’approcciarsi a questa piccola, solo nelle fattezze, raccolta, di misteri insoluti. Ma ci viene subito in ostacolo lei, la Francesca: “La mia poesia rischia che l’idea venga prima della figura. L’idea non ci garantisce, i concetti non salvano la realtà dal diluvio, non ci mettono le cose in cassaforte. Devo essere un uomo e non l’idea di un uomo. La contemplazione mistica si avvicina talvolta più al silenzio che la profanazione. È vero che tutto è dentro al pensiero, fuori non sappiamo cosa ci possa essere e il pensiero si avvicina a ciò che intendiamo con la parola spirito. Ma la poesia non è un pensiero in metafore o in immagini belle, è un oggetto da fare, è una creazione, anche se non dal nulla” (p. 75). Chi scrive fa di questa materia di gravità (“poco più alta di un fiore”), chiamata pure vita, una pura appunto sospensione, dove come lavoro di formiche (“scendono i giorni… e ci mangiano quel poco di vita”) accumula con cura i passi da fare, i propri da divenire condivisibili e domestici, così “la sera cade sulla farfalla / come una tegola spezzata“. Ho spesso discusso con me, fino all’oblio o all’alba, sul passaggio tra sera e notte, in quale valico dello spazio vi si trovassero faccia a faccia, per salutarsi con la bizzarra idea di scambiarsi i ruoli. Mi viene in soccorso ancora la Francesca nell’inizio di un’altra poesia: “Dicono che la quasi notte / abbia tempo di fissarti / prima che gli storni avvolgano l’aria” (piccola annotazione: nella pagina che ho davanti il primo verso è stampato più chiaro, forse per contrasto o perché poco meno che giorno si appresta visivamente al buio e anche di seguito “scoprano un decolleté nudo / l’ora senza foulard” il primo francesismo sbiadisce ugualmente).
Dimentico quanto scritto fino ad ora. Ricomincio. Cosa c’è di più bello della notte? Le stelle? Forse aspettarla. Qualcosa come la poesia che deve arrivare, verrà quando meno te lo aspetti. Non c’è un’ora per dire che questa è la notte, appunto, come non sta al poeta dire questi sono i versi, a meno che non sia un animale. “La quasi notte” è un manuale di quattro sezioni più una intitolata come il libro ma non finisce perché, alla fine, sbucano gli “Appunti sparsi”. Questi sono una sorta di prontuario ormai dell’oscurità, dove la descrizione della poetica serragnoliana è come una bimba, nel gioco, non si fa mai prendere, al più, se riesci a parlarle, chiedendole dov’è stata o dove va, ti risponderebbe prontamente (come sovente si fa dalle mie parti): invelle, ossia in un posto di cui tu non puoi, non devi sapere, non te lo posso proferire per non rovinare la magia del tempo sospeso… occupati d’altro. D’altronde era proprio Simone Weil che diceva che non potevamo essere vicini a Dio altrimenti saremmo scomparsi; un Dio che crea di nascosto, che rivela quanto basta per non essere abbagliati dal cielo e disinteressarci della terra.
Forse allora la poesia è quel contrappeso da squilibrati o probabilmente no.
Ritorno ancora dall’inizio come vuole un gioco da tavolo e se fosse un canto di abbandono all’esistenza questo che sto leggendo? E mi vengono subito in mente da scrivere alcuni versi critici, come fosse una nuova recensione in forma di poesia:
C’è una parola prima di essere incorporata
esiste nell’idea insiste nella fermata della
bocca, in una dimensione altra vive la sua
poesia. Quando tocca l’atmosfera della terra
assume un verso e diventa purè il Vangelo.
Saliente per ognuno quando si scruta la prima volta il mondo (tra le lacrime di senso) l’odore della presenza, per Francesca i primordi della religione significano iniziare un confronto con le cose (come tradurre la parola cultuale: res legare) e poi, seguendo gli autori che lei cita in ogni sezione, sosta in un cristianesimo che unisce appunto i rapporti fra le persone, proprio come intendeva l’anarchia Tolstoj. Perché sia bambina appunto quella poesia prima di essere detta, dalla natura, contano le parole, una dietro l’altra, come il gioco della campana e sciamano i ricordi, che pongono la base per l’incessante ricerca dell’altro, che coincide con l’ultimo, come la morte combacia con la rinascita (“Il rapporto fondamentale fra la morte-resurrezione e la parola è continuamente da reinventare” Olivier Clément).
Fino a ieri la nostalgia di non portare a termine un progetto filmico sulla poesia della Dickinson, che avevo non a caso intitolato “La messa della natura” (trovando per giunta una ragazza somigliante di molto alla grande protagonista statunitense), poteva diventare rammarico, ma leggendo questi testi, assieme a quelli scritti con tenacia dalla Zambrano e dalla Zarri e scambiando, infine, due parole con Lagazzi, sul suo ritorno al cristianesimo passando per l’oriente, che la quiete innaturale ha preso il sopravvento e proprio da quest’ultimo cito quanto ho censito, sul suo ultimo romanzo scritto a quattro mani (La colpa e il suo senso ci isolano come la parola senza la sua lingua in https://www.pelagosletteratura.it/2021/04/15/lisola-della-colpa-di-lagazzi-e-tomerini-recensione), per commentare ora il titolo scelto dalla Francesca per la sua silloge (“come avviene nell’esperienza della notte oscura degli asceti, che esplode già quando l’incoerenza della religione, l’infedeltà dei devoti iniziando dagli ecclesiastici, prorompe nei meandri del quotidiano, ma da lì si può almeno scegliere se arrivare alla piena conoscenza del divino o del malvagio”).
Si potrebbe ancora errare e molto, ma nel dare una conclusione provvisoria a quanto steso, concentro su una poesia (pag. 47, chissà se la cabala è fortuita) l’attenzione, che reputo tra le più notevoli lette negli anni che mi dividono da quando ho iniziato, con coscienza e incoscienza, ad assaporare i versi altrui. Cimento in un’analisi benché non ne abbia bisogno, ma voglio aggiungere quel poco perché, ad esempio, si dica della Gioconda dove si trovava quando fu dipinta.
Si dovrebbe avere il coraggio di morire
in un luogo dove la vita si ricompone
osservando un albero che abbiamo amato
portare mio padre li, seduto
senza fare niente
insieme al vento dolce
che lo porterà via, un giorno
rimanere fuori casa
non è più un pericolo
il sorriso del primo sole di maggio
ha per i vecchi il pudore di una madre
le rondini girano attorno
come una mano che sbatte
un uovo con lo zucchero
non c’è fretta, prenditi tutto il tempo
di mangiare e alzare gli occhi
contro quel volto scolorito
che torna a riprenderti la mano
ed io dividerò con lei
un cucchiaio e poi l’altro.
Ecco questa potrebbe bene essere la rappresentazione della messa per i defunti. Ci siamo dimenticati la morte oppure come si muore o meglio ancora abbiamo disimparato a morire. Eppure un circolo diventa questa nostra durata sulla terra. E come ricorda la Zarri: “Non mi spaventa l’idea di morire da sola: mi sembra, anzi, che sia la morte più giusta per uno che da solo ha voluto vivere. Spero che i miei amici non si affannino. Vorrei loro evitare la triste cura del rivestimento e farmi trovare pronta, con indosso una veste colorata, festosa, a fiori. E forse il gatto accoccolato su una spalla. Ma non intendo programmare la mia morte: sarebbe l’ultimo attaccamento alla vita. La morte non si programma: si aspetta quietamente, come si aspetta la vita. E sarà come viene: magari nella corsia di un ospedale, o per strada, o chissà. E sarà sempre impastata con la vita: vita, essa stessa, nel suo punto più alto e dirompente” (Un eremo non è un guscio di lumaca, Einaudi 2016, p. 198). Perché una volta era così naturale che in una casa, in una comunità il ciclo della vita fosse l’unico governo umano; ora invece si muore lontani – casa di riposo, ospedali, ecc (pandemia docet).
Non siamo come vorrebbe il significato della parola amici, su facebook tutto è di molto relativo (ma sempre la Weil avrebbe risposto che l’amicizia è guardare da lontano e senza accostarsi), comunque la dedica che Francesca fa dopo il frontespizio un po’ m’appartiene, poiché la conosco da tempo sulla carta, avendola ne “I cercatori d’oro” (La Nuova Agape 2000), dove lasciava già inermi poi, non so quanto per caso, mi sono trovato pure nella mia biblioteca “Il fianco dove appoggiare un figlio” (Re Enzo Editrice 2003), allora ho pensato forse è un vizio, questo spiazzare la strada verso un indirizzo.
Ho tra le mani questo, ora, è un dono e non sapevo d’esser lieto.