L’immensa normalità di Vittorio Cozzoli

Vittorio Cozzoli, L’immensa normalità (Il Robot Adorabile Edizioni)

Foto di Mint Miller da Pixabay

L’esperienza di Vittorio Cozzoli si muove da sempre su un doppio binario: da una parte la sua lettura e l’approfondimento dell’opera di Dante (è, senza dubbio, uno dei nostri più accreditati dantisti), dall’altra la sua scrittura in versi personalissima e originale, nella convinzione che l’Italia di oggi abbia bisogno di poesia nuova “perché quella che spesso si legge è poca cosa prima di tutto per la ragione che sembra poca cosa quello in cui chi scrive crede”, e poi dal punto di vista della lingua, fatta scendere ormai troppo spesso sotto il livello di guardia.

Per Cozzoli occorrono esempi alti, anche stilisticamente, perché lo stile è segno di qualità-non-retorica, e occorre resistere a un minimalismo della quotidianità che non vede più in là del proprio naso e avere coraggio profetico, ricordando che la poesia ha radici che la lingua stessa non può più a lungo emarginare o ignorare. È insomma ciò che l’autore pensa e sostiene da anni: che la poesia debba portare o ri-portare ad altro di più importante, di più essenziale, al di là del puro recinto letterario, e che sia una vera pratica esoterica.

Non è un discorso moralistico quello che deve sostenere la poesia e la conseguente critica che giudica i poeti e le loro cose, ma un discorso spirituale. E bisogna aggiungere che in ogni caso, per Cozzoli, il discorso moralistico senza quello spirituale non porta più in là, cioè più a fondo in noi. Il rinnovamento della poesia vince la stanchezza del già visto, del già letto, perché è “dentro” che si combatte la battaglia anche per la poesia.

Su questa linea è anche l’originale plaquette appena uscita L’immensa normalità (Il Robot Adorabile Edizioni, con una tempera di Adalberto Borioli), un piccolo nucleo di poesie (14 per l’esattezza) ma di grande peso specifico e, come sempre nell’esperienza di Cozzoli memore degli insegnamenti di Dante, con un’alta valenza allegorica.

Una straordinaria competenza botanica nell’identificare fiori ed erbe si sposa, in queste poesie, a un afflato intenso e consapevole nella direzione della necessità di tornare alla natura e al suo prezioso dono della vita, nell’ottica di quel miracolo della semplicità evocato in partenza dal titolo stesso della plaquette (tratto dal verso di una delle poesie). Come spiega l’autore stesso, in una recente intervista, è l’immensa normalità della vita che si è servita della natura per portarlo alla comprensione “di quanto immensa sia la normalità della vita della natura” e di come in genere ci capiti, distratti e oggi condizionati dalla marea di scienziati ed esperti quotidianamente invasivi, di restare lontani dal capirlo. Una normalità che, compresa più a fondo, rinvia a Dio, “misterioso responsabile di tutte le erbe e di tutte le piante” di questo nostro pianeta, in una chiave di religiosità profonda che, come in tutta la produzione di Cozzoli, rimanda dantescamente ad un enigmatico piano che coinvolge la salvezza ultima degli uomini.

Nella semplicità dei soggetti (anche quando si rifà alla pittura o alla grande letteratura o ai testi sacri) Cozzoli sa usare una lingua smagliante, luminosa, e la sua scrittura si distingue nel panorama della poesia contemporanea per un uso straordinario della nominazione. È merito di quella sua speciale sensibilità che ha nei confronti dei nomi delle cose e che lui stesso si riconosce consapevolmente: “forma, peso, fascino che unisce l’aspetto fonico e ritmico a quello semantico e culturale”, una musica che i nomi “portano con sé e donano a me, poeta e non botanico”. Nomi fascinosi, capaci di produrre un’immaginazione che si può trovare appunto nei libri di poesia come questo incantevole e coinvolgente L’immensa normalità.

Paolo Ruffilli

 

Due poesie di Vittorio Cozzoli

Non mi offendo. Quanti di me più bravi
e più avanti sulla strada dell’amore.
È così, non mi offendo, lo riconosco,
sto nel mio, qui, dove mi riconosco.
Così mi conoscono gli uccelli e le erbe,
i pettirossi e i codibugnoli, le bocche di leone
e l’erba della Madonna, quella che Cima
vide un giorno su bianchi gradini di marmo
a Venezia e dipinse per sempre.

*

Oggi è venuto il pettirosso. Non una cincia,
non un merlo sul balcone della cucina.
Di profilo, il petto rosso, e subito, timido,
l’ho visto ripartire. Forse capisco, forse
ignoro il perché. Ma più capisco Bernardo
che ai suoi, curiosi di una cosa dello spirito,
risponde: “Confesso di non saperlo”.

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