È una scrittura a strappi, a quadri, quella di Paolo Fabrizio Iacuzzi in Folla delle vene, (Corsiero Editore) 2018. Dotata, però, sempre di un suo ritmo, di una sua misura sincopata e puntuale.
I toni e le atmosfere cambiano continuamente. Nella prima sezione, Maestro della rosa, si staglia la presenza di questa stella rosa appuntata sul petto degli omosessuali nei lager nazisti: è un incubo antico che sempre minaccia il suo ritorno.
Nel tempo degli amici domina una cordialità, una fraternità di intenti sotto il segno costante ed irrinunciabile della poesia. Sono venuti da lontano i fraterni poeti, da Marsiglia; e in questo modo: “il lontano ha smesso di essere una minaccia vera”. Nel tavolo quadrato attorno al quale ci si raduna, ognuno ha scelto la sua versione che assomiglia alla propria sorte che non ha scelto ma: “L’ha avuta in sorte dal padre e dalla madre”.
In questi versi di straordinaria intensità c’è molto della Weltanschauung di Iacuzzi. Ci si muove in un orizzonte dove non ci sembra di poter rintracciare una qualche dimensione provvidenziale di tipo sia immanente che trascendente. La poesia, certo, è una risposta; essa deve passare attraverso “parole dolci, ma impervie”; non si può dimenticare che “siamo fuoco e cenere del senso”.
Da notare questi versi e altri dello stesso tipo, che sono netti e implacabili come sentenze. Spesso conchiudono un discorso o una riflessione.
Salvare le parole, portarle da una lingua all’altra, diffonderle e difenderle: questo è il compito dei poeti. E in un libro che rifugge da qualsiasi sentimentalismo e retorica, noi avvertiamo un pathos profondo, un ancoraggio importante alla amicizia e alla poesia.
Anche la natura appare in improvvisi e rapidi squarci, nei “…..monti più bassi delle Alpi piene di neve” o “Negli orizzonti limitati da valli di fieno e lavanda”. La parola resta comunque e sempre quella che dà un senso alle cose e talora “lambisce l’impossibile”.
Ritornano continuamente questi versi apodittici, queste affermazioni così vere ed assolute, mai però dogmatiche o sterili. Esse innervano le pagine con i loro straordinari trasalimenti.
Gli spazi della riflessione e della immaginazione sono vastissimi: da Pistoia a Tebe a Vaucluse e al monte Ventoux: e proprio su questi ultimi due si incontrano destini e vicende di due personaggi lontanissimi nel tempo e nel carattere così come nella funzione svolta: Francesco Petrarca e Marco Pantani. Li accomuna il destino di fare quasi la stessa faticosa ascesa anche se con esiti così diversi.
Sono proprio questi salti, questi collegamenti “pindarici”, ma sempre ricchi di senso, appena si superi l’impatto iniziale, ad essere un altro elemento di forza di questo libro.
Secondo Pasquale Di Palmo “la temperatura altissima delle parole” rilevata nella prima raccolta da Emanuele Trevi, ha subito una qualche trasformazione, si è fatta più cantabile, con una pronuncia più composta ed accessibile. Possiamo essere d’accordo con Pasquale Di Palmo a patto di non sottolineare troppo questa “cantabilità”: certo, siamo di fronte ad un ritmo, ad una sonorità contrassegnata da note non facili e impervie: ma il ritmo c’è, forte ed indiscutibile.
Iacuzzi è un “poeta civile”? Come potrebbero fare pensare certi passaggi? La sezione Folla di migranti sembrerebbe muoversi in questa direzione: e di sicuro il poeta osserva questa folla con animo partecipe e commosso. La risposta di fondo è, però, quella dataci dallo stesso Iacuzzi: “Non ho mai voluto essere un poeta civile. Sono civile nella resistenza della lingua che non si piega alle verità della Storia”.
Dunque c’è una verità della lingua che non è mai quella della Neoavanguardia, in quanto non ci si muove mai su di un piano di astratto gioco linguistico. La lingua di Iacuzzzi è sempre densa di senso: certo non ci si muove su di un rettilineo, ma su di un intreccio di situazioni e riflessioni che ha comunque una sua necessità logica e fantastica.
Gli stessi elementi emblematici presuppongono ardui accostamenti: la bicicletta, Mary Shelley e Frankenstein, Petrarca e Pantani. Accostamenti complessi certo, ma sempre coerenti dentro una visione non sistematica, ma organica con chi pone la verità del vivere e della lingua sopra la Storia. Dettato multiforme quello di Iacuzzzi che, come è stato notato, registra pochi “exempla” in ambito nazionale.
I Maestri comunque ci sono, anche italiani: Piero Bigongiari, così legato a Pistoia e Mario Luzi.
Certe accensioni liriche investite da una lingua alta come nel verso: “Cosa cerchi del mondo nel Tempio etrusco?”, possono rimandare nell’eloquio e nella carica simbolica a Piero Bigongiari. In altri momenti si avverte la presenza di Luzi della “terza stagione” dominata dall’interrogazione e da una assidua ricerca.
Difficile collocare, invece, Iacuzzi nel panorama della poesia italiana contemporanea. La sua ricerca linguistica non ha nulla a che vedere con gli eredi dei “Novisssimi”; nessun abbassamento prosastico alla maniera di vari lombardi, anche se non manca l’uso parco di un linguaggio quasi colloquiale; e non c’è fuga nelle terre classiche del Mito; la dimensione quotidiana, magari anche familiare che lo potrebbero apparentare a vari altri autori, viene sovrastata da un orizzonte amplissimo e multiforme.
Sono innumerevoli nei poeti le influenze e le suggestioni provenienti da chi li ha preceduti o da chi li accompagna: ma ogni vero poeta deve avere, oltre ad una propria Weltanschauung, anche un suo inconfondibile accento. E Iacuzzi lo ha trovato e lo si riconosce sempre nella complessità del dettato che caratterizza l’autore pistoiese.
Umberto Piersanti