Interventi pronti e brevi su due libri di Maria Lenti

 Interventi pronti e brevi su due libri della Lenti (Pelagos, 2018)

Ci vuole il suo cognome per dare indicazioni su come leggere gli scritti di Maria Lenti ossia necessita il suo tempo e un primo approccio credo non basti a salire o scendere i piani della comprensione. Dovrebbe essere, in fin dei conti, per tutti un po’ così.
Nell’ultima raccolta di poesie la ricerca attenta dell’umano nel quotidiano è un cardine, la scelta delle parole forma un’asse di immagini che discriminano le esistenze, dai luoghi natii a quelli di altri posti, sempre del cuore (e lo è ancora di più, come leggeremo, in narrativa). Troviamo tra le sue righe più che senso di individualità una appartenenza alla terra. Quando ad esempio Maria perde la sua carta d’identità, nel rinnovarla, pensa che alla richiesta all’anagrafe del “Nome, cognome, luogo e data di nascita” scriverebbe piuttosto “beneamati”, che allo “stato civile” metterebbe “affetto”, ai “Segni particolari” “indignazione” e all’”Altezza?” “Ancora quella” “bassa” se comparata a me “e alta” se raffrontata con un bimbo “per relatività”, appunto. Ecco allora che ogni composizione si fa viva poesia quotidiana.

Ogni pagina viene alla luce da un rimando, da una memoria; lo scrivere non può fare altrimenti, in questi versi lo è fortemente.
Ma facciamo appena un passo indietro, attenti a dove mettete le orme, andiamo al titolo del libro “Ai piedi del faro” (La vita felice, 2016): ci si proietta ipoteticamente alla base di questo strumento necessario ai naviganti, particolare riparo, indice nel cielo, grazie al mare distinto e isolato, ghiacciato o vessato dalle onde (se l’autrice legge piano i suoi versi questi spesso sono delle sciabordate, in altre zampilli), ma nei suoi sinonimi ha il significato pure di modello, guida spirituale e maestro, contro i fari dell’inciviltà? Ovvero siamo (ancora?) in attesa di chi ci dia una direzione, che ricomponga una rotta, siamo in aperta lettura e domanda. Anche se quel strumento ormai in disuso lo si trova da una parte in vendita dal demanio, in qualche estrosa collezione e magari dall’altra sostituito dall’ultima tecnologia.

Una Sinfonietta inaugura il libro, così il titolo della prima poesia, e fa così: “Torna a trovarmi / cuore fedele. / Da tempo manca alla mia mano / il tocco della tua lieve”, ecco quel sentimento leopardiano che si ripresenta inesorabile, in tante se non tutte le nostre vite; quando Giacomo a Pisa, nel 1828, scriveva alla sorella Paolina: “ho fatto dei versi quest’Aprile; ma versi veramente all’antica, e con quel mio cuore d’una volta”). Sana nostalgia di ritornare a trattare certi temi, a ricalcare alcuni versi, nella nostra autrice, forse perché certi sentimenti mancano in questo mondo senza illuminazioni particolari e tramite la poesia si può invece dare un corpo che ricopre e rende lieve la gravità delle situazioni. Si va per tentativi alla ricerca di una sistemazione armonica delle parole tra gli arti: “le dita che lo cercano / a leggerne contorni / la bocca che lo reclama / al gusto dello scambio / l’orecchio che lo risente / e ne ridice l’eco / lo sguardo che lo profila / in un disegno lieve / / il seno che l’accoglie / l’anca che lo rivive / il fianco che lo serra / la voce che lo fa canto / la parola che lo nomina / nei suoi colori tenui”.
La lingua batte tra la lirica e il non retorico, tra il senso e il discorsivo.

Se nel famoso romanzo familiare e introspettivo della Wolf, a cui non posso non pensare, in letteratura, quando sento la parola “faro”, scrive David Denby, in Grandi libri (Fazi, 1999) “è racchiusa gran parte della storia morale e letteraria dell’Occidente. Le meditazioni dei personaggi, nonostante il loro legame con l’occasione concreta, sono la proiezione delle eterne domande che assillano ogni uomo: cos’è la realtà? A che serve la vita? Come possono un uomo e una donna vivere insieme? Che cosa vedono e sentono le donne che gli uomini non riescono a capire?”. Maria forse in parte risponde con il suo punto di vista in continua evoluzione, alla ricerca del mistero insoluto che caratterizza gli esseri umani. Oppure sono le parole stesse a scegliere quando arrivare a una soluzione, seppur errata ma almeno errante, come con le filastrocche, che l’autrice scrive a suo piacimento: “ridi argentina / orlo in gravina / osa e traspira / guarda e rimira / sfoglia la rosa / rossa amorosa / poni la fine / sulle stelline // catena catenella / quanti anelli da infilare” (almeno in questo genere di scrittura mi sento per la struttura finalmente magro e torno bimbo).
In questo girotondo delle parole anche il dialetto trova il suo giusto posto, nell’emblematico testo Sparizioni, forse la composizione più intensa dove la lingua madre sparisce (nella frase ossimorica, ripetuta, come un intercalare, che traduco dall’urbinate al mio montesantese: “no me dì, no me dì gnè(nde)”, come a non voler sentire quello che invece si brama o si ha paura di riascoltare) e alla fine entra l’italiano che non può far altro che denunciare la scomparsa del silenzio.

È una battaglia aperta con i termini contro “gli incensatori di parole / … / i dispensatori di lodi a piena voce / … / gli urlanti i declamanti gli osannanti i titolanti”, anche con la flora e la fauna Maria non si risparmia nel gioco delle rime, persino quando propone indovinelli. È un abbeccedario della natura questa pubblicazione, a tal punto che mi fa pensare che ho in mano qualcosa sia per i grandi che per i piccoli.
Nella sezione centrale “Ex-libris” l’autrice rinnova l’etimo (dai libri) passando in rassegna fatti di cronaca, storici, quotidiani. Non so se è una mia deformazione o eccessiva lettura dei versi dal ‘900 a oggi, ma anche in questo libro di Maria mi soffermo meglio quando il ritmo e l’io (che poi spesso sono la stessa cosa) diventano più lirici, come nella calibrata “Io vado – Tu dove vai”, in cui la denuncia storica e capitalistica ha il suo respiro di riflessione. E così l’intera sezione  “Mia città” con l’omonimo testo che è un atto d’amore per la propria Urbino vilipesa ma integra nella sua arte, da tenerla nel cuore e nel corpo  “tu, dentro tele, / di (e da) secoli fedele // teneramente / nei giorni mi cammini”. Chi scrive veramente deve fare sempre i conti con la propria patria poetica. Siamo verso la fine del libro, come un resoconto della vita appare la poesia Due tempi… perfetti che forse si può annoverare tra le migliori sulla metafora del calcio; non prendetemi per forza per maschilista ma almeno una donna che si rifà, se non altro, in versi, verso chi la spediva, perpetuamente, in porta, perché comunque sa come nell’esistenza la partita bisogna giocarla tutta.

Due tempi… perfetti

Mi destinavano, ahi loro!, a parare palloni,
duri di refe per le mie mani piccole,
nel campo della fiera, sportivo in altri giorni,
gli amici e compagni delle elementari.
Io, mia madre volata – per il prete e la maestra –
in cielo, ogni volta cercata,
io Mariolina, mai sola:
Corrado, Giampaolo, Ferruccio, Ireneo,
Riccardo, Lucio, Gilberto, Peppe, Gigina,
Tonia, Carla, Imelde, Franca, Anna,
a scuola di mattina, di pomeriggio lungo il fiume
– primavere calde e assolicchiate, sole d’estate –
a cercare sassi e anguille, a deviare acque,
a inventare vite a non finire.
… ma il calcio premeva nei maschi
e urgeva, uguale la forza,
l’amore per una sognatrice dal fiato corto.
«In porta. Tu, in porta.»
Seduta, li aspettavo in grembo, quei palloni,
non a destra o a sinistra delle mie gambe e braccia:
entravano oltre la riga come fiocchi di ovatta
o come dirigibili fischiavano alle orecchie.
Non giocavo mai la mia partita.

Il lunedì alla prima ora, scuole superiori,
io insegnante di italiano e storia (o latino)
li sentivo i miei studenti precipitarsi
nella serie A della domenica:
chi aveva vinto, chi perso,
chi si era lasciato sfuggire occasioni,
chi non aveva schemi, chi non aveva p…
Lezione improponibile.
… ma, studiando io, la mattina presto,
le gazzette sportive, preparavo l’anticipo su
Fabrizio, Daniele, Lorenzo,
Manuele, Giancarlo, Filippo, Toni, Fabio,
Rossano, Franco, Roberto, ecc.,
giocatori in proprio o in poltrona.
Spiattellavo squadre e il pallone ai piedi,
ridarella sui “no” sui “sì” sui “così così”,
facevo seria melina sulla classifica.
Le voci scomparivano alle mie sciocchezze.
Rimettevo in campo i miei pallini:
Catullo innamorato, le assenti nei libri storici, la poesia
Qualcuno s’assonnava, qualche altro si svegliava.
La mia partita la giocavo tutta.

 

Una scrittura in presa diretta, quella in prosa che spesso sembra essere poetica, un flusso di coscienza con una folta punteggiatura, quelle di “Certe piccole lune” (Fara editore, 2017). Frasi nette e schiette che non lasciano altre riflessioni se non molte in chi le legge e tutto al presente indicativo, come se quello che si vive è sempre oggi, pure in quello che si è fatto. Una raccolta biografica di persone, fatti, emozioni, gioie e dolori. Come il racconto dal titolo Nando al tiro, uno dei tanti personaggi che sembrano proprio reali in questo libro, che scompare dalla circolazione a sua volta dopo la morte della moglie e che da questa botta si “riprende” con altre bòtte, quelle rimediate andando in un poligono a discapito della poesia, che raccoglieva una volta e che poi butta, inesorabilmente, in un cassonetto.
Separazioni, divorzi, amori furtivi in auto, su di un camper, nelle pagine che si sfogliano, due che amoreggiano apertamente in uno scompartimento sfidando forse lo sguardo dell’autrice o magari rendendola complice di quell’amplesso ferroviario.

Maria sembra stendere fatti che spiegano naturali misteri, d’altronde gli astri di riferimento, nel titolo, sono simboli che compendiano e influenzano le persone (femminili) e gli avvenimenti terrestri. Ecco che lei ha una necessità di luce, come denunciano i suoi titoli bibliografici: “Ai piedi del faro”, “Certe piccole lune”, “Sinopia per appunti”, “Cambio di luci”, “Effetto giorno” e “Giardini d’aria”.
Ogni minima proposizione in ciascun conticino – parliamo di due pagine di media a narrazione, solo uno arriva a nove, l’ultimo, un thrillerino, un nuovo genere breve intitolato Il capolavoro del 1953 (una prova in giallo) – affonda in minuziose descrizioni così la protagonista in Rosanna e i savoiardi ci fa capire come ci si deve voler bene, nonostante le dure vicissitudine della vita, allora basta “il piacere dei savoiardi imbibiti di dolcezza” che “Rosanna ha la sua vita nelle sue braccia”.
Termina la giornata come si conclude la scrittura, col punto. In un’altra fermata ecco incontrare un altro ossimoro, Don Fabio che si scalda al solo pensiero che le donne possano diventare sacerdotesse.

L’arte contemporanea oggi è prevalentemente esperienza, lo è ancora di più nella narrativa. Nei racconti della Lenti, genere ancora più congeniale, c’è di continuo uno scambio tra il suo sentire le cose e quelle di chi incontra, anche se a pag. 124 scrive “Personaggi e vicende sono puro frutto di fantasia e immaginazione” io non ci credo. Più vado a ritroso nel leggere e più penso a Robert Walser (è una fissa) però più stringato, dove ci sono troppe cose da dire o da descrivere che rimangono tali o si fa del proprio meglio per esporle; con la voce di dentro che detta naturalmente ed escono fuori, le parole, le congiunzioni, in fila i puntini, le virgole, si sdraiano e decidono quando fermarsi, perché continui il lettore. No, chi legge non rimane inerme, tocca faticare per trovare il capo, perché bisogna ritornare indietro per sapere come finisce. Altre volte si va troppo veloce a leggere per chiudere, per vedere dove l’autrice va a parare, che si salta a piè pari gli ostacoli fondamentali dell’interpunzione e l’immaginazione fa la sua parte. Anche a me capita, come a Maria, di ricercare una parola precisa per connotare un personaggio o una frase, come in “inbibiti” già letto, o “sedulo” nel racconto finale, solo per fare qualche esempio. In fin dei conti è una scrittura quella che ho appena letto “in viaggio” come scrive alla fine di Migliore festa: domenica in città: “La mia vita è questo pranzo sull’alibi di un pendolarismo da sciabordio acustico”. Il viaggio allora è la nostra aria, a volte ci soffoca, fa dolore forte al petto come un incidente, come nell’altro racconto toccante e ripetuto nei punti di vista in Lio e Pinella e il sogno di ieri, dove l’amore, il sogno e il trauma si riverberano. Mi fermo qui nelle descrizioni, non c’è bisogno di aggiungere altro poiché ci deve pensare chi ci prende in mano, quella Mano nella mano di un altro racconto, che ci accompagna per farci perdere piacevolmente nelle storie. Perché nonostante tutto Maria da l’impressione che si sia divertita a scrivere tutto, e io con lei a leggere, quasi come se tutto dovesse essere scritto diversamente e con tante impressioni, come un’urgenza oppure un’opportunità di lasciare una testimonianza della nostra storia in questo paese. Ma un suo racconto qui lo aggiungo:

IL CIGLIO SUL CUORE

Il ciglio sul cuore: Salvador Dali? Un surrealista? Un artista bizzarro? Un fotogramma di Un Chien Andalou di Buñuel? Un bambino o una bambina che mette in atto la sua fantasia?
L’attesa di una lettera: questo il significato del ciglio sul cuore.
Le cose, in quella comunità di collegiali, andavano così attorno al 1953…

Genitori poco alfabetizzati, famiglie lontane e indaffarate, francobolli troppo cari per salari inesistenti o racimolati facendo vari lavori e, magari, vendendo uova, pelli di coniglio, la posta arrivava con una parsimonia tale da intensificare la voglia di essa, di notizie, di un bacio e un abbraccio che chiudevano i fogli spesso di quaderno dentro buste rosse, le più economiche. Qualcuna, lì da anni, ritorno a casa nemmeno d’estate – s’e saputo in seguito che il mestiere della madre non lo permetteva e che il tribunale aveva deciso il collegio per quella bambina figlia occasionale di un cliente occasionale -,  era all’asciutto da capo alla fine dell’anno.
Adalgisa, la più estrosa, quella che leggeva sotto le coperte al chiarore di molte lucciole, tenute nel palmo dopo essere state rincorse nella palestra scoperta, quella che faceva girare illimite la mia immaginazione nella improbabilità dei suoi discorsi leggendari, mitici, lei, mai nemmeno un rigo, se ne era uscita con una novità: mettersi sul cuore un ciglio, caduto da solo nel viso o nel petto lavandosi o asciugandosi, avrebbe portato una lettera, una cartolina postale.
E giù, molte di noi, bambine e ragazzette a scrutarci nell’unico specchio vicino ai lavandini per rintracciare quel peletto.

Seguivo le altre, benché la posta a me non mancasse. Almeno una volta alla settimana avevo la mia lettera sul banco in cui, di pomeriggio, facevamo i compiti. La mia famiglia infatti, era sparsa. In Sardegna, minatore (il babbo), militare (Remo, a Bari-Barletta-Altamura), sposata (Liliana, a qualche chilometro dal mio paese), in Francia a lavorare (Lorenza), a casa (Antonia) a cucinare, pulire, imparare da sarta per uomo, con Romolo che faceva il muratore a Urbino.
La posta, parecchia. Ma il ciglio da posare sul cuore lo cercavo accanitamente. Le compagne, scarsa simpatia, mi guardavano di traverso: «Ingorda. Sei un’avida. Sei in peccato mortale. Ti devi confessare.»
Non avevo mai rivelato che sul pelino ricurvo caricavo il desiderio di vedere tutti i miei riuniti in agosto, nelle vacanze.

Roberto Marconi

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1 commento a “Interventi pronti e brevi su due libri di Maria Lenti

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