ESsere scritto di Roberto Marconi
Stanno le colline e m’apprendono
di là dal finestrino, e le coperte
banchine gli sbiancati furgoni le
fabbriche assonnate rivanno via,
dall’altra parte… È sì uno specchio
allagato e mi pone pure accanto
le discenti che carezzano scuri
corti piani ed il colore del mare,
così i pensieri miei si scambiano
con il respiro e mi ridomandano.
L’Es gioca tiri straordinari,
guarisce, fa ammalare,
costringe ad amputare arti sani
e fa correre la gente incontro
alle pallottole. In breve, è un
essere lunatico, imprevedibile e
spassoso.
Georg Groddeck
Quella appena letta, in corsivo, è la prima citazione dell’atipica raccolta (in qualche modo atavica) curata dallo psichiatra e poeta cremasco Giancarlo Stoccoro (poeti e prosatori alla corte dell’Es, AnimaMundi Edizioni, Otranto 2017) e non poteva essere altrimenti per un tema così articolato e intricato, per una forza travolgente e imperscrutabile che ci vive appunto dentro, di noi, in chi scrive e opera trascrivendo (oggi anche digitando) ciò che viene dettato (di dantesca memoria) da una zona “altra” della mente, abitata da qualcosa di abissale. Un’immaginazione in più che per essere vera, come scriveva la Weil, non deve colmare vuoti per non essere falsa, al più elevare corpi, come descriveva Keats.
Mentre censisco non posso far a meno già di scrivermi,
il miglior contenitore è quello che sfugge.
Stoccoro argomenta, nelle prime (tre) parti introduttive, con ampie esposizioni, su come si muove il linguaggio, su chi si approccia a distenderlo, chissà quanto o in quale modo consapevole sul foglio.
La scrittura di un mondo profondo nei suoi generi.
E cita Bollas, il quale vede la poesia strutturalmente più semplice e vicina a un linguaggio orientale che cattura il sé con esperienze intense che coinvolgono tutto l’essere, distinguendosi dalla prosa, più occidentale, con periodi maggiormente articolati, che puntano più all’esposizione a discapito dell’invenzione. Insomma, una prosa che persuade contro una poesia che rischia.
In un’altra introduzione il curatore spiega come l’Es favorisca il poetare, perché mentre si scrive o si legge c’è uno scarto che corrisponde a quel lasso di tempo, in cui le immagini, si incastrano, nell’immaginazione. Ma attenzione alla deriva narcisistica, denuncia lo psichiatra cremasco, che se da una parte fa pagare al poeta il prezzo molto alto in termini di isolamento, solitudine e perdita del senso di appartenenza che possono sfociare anche nell’annullamento fisico (molti, in questo caso, i nomi in poesia, nel gorgo), dall’altra, aggiungo io, non fanno apprezzare appieno i risultati dei colleghi, sfociando spesso in ripicche e invidie, deleterie se solo distruttive.
Ma la poetica scommessa dello stupore, di chi non sottostà alla crudelissima iniziazione del mondo degli adulti, si compie quando l’Io diventa miracolo del Tu, come puntualizza Jabes.
La seconda parte del libro, al centro, riguarda interviste in proposito a un gruppo di autori, scelti da Stoccoro stesso. Alla prima domanda, se si è scritti, vissuti, se si riconosce l’Es come forza misteriosa che ci trascende (io non so come chiamarla ma qualcosa di appena sondabile in superficie succede, figuriamoci in profondità: fin da piccolo giocavo con la penna e non sapevo mai come riuscivo a inchiostrarmi le mani) Franco Loi porta il paragone del sogno, per rispondere alla prima istanza, sapendo di non poter controllare la dimensione onirica: quando rileggo le mie poesie dico: «ma chi le ha scritte?», la cultura serve” poi “per rivedere le cose che si dicono. Non siamo così straordinari da ridire esattamente quello che ci viene detto dentro di noi e facciamo degli errori. Per questo abbiamo in mente le rime e tutte quelle regolette. Ciò che è davvero importante è l’ascolto di se stessi, bisogna essere soli. Milo De Angelis sottolinea come occorra saper portare la voce dell’Es, con un proprio stile, così forse la poesia è ciò che consegna alla luce del giorno i segreti notturni. La poesia ci aiuta a conoscere le zone buie e allarmanti della nostra vita e dunque io sono grato agli esploratori delle tenebre, vedo in loro dei pionieri o dei martiri, sento che senza Paul Celan o Ion Barbu saremmo tutti più poveri di abisso. La Francesca Serragnoli paragona la liturgia all’arte che diventa luogo, realtà soprannaturale, corrisponde alla natura più intima dell’uomo. Non importa se uno abbia o meno dimestichezza con la liturgia. Si tratta di essere un’opera d’arte, di essere quello che si scrive, di desiderare l’impossibile che l’arte fa intravedere. Avere un senso senza particolari scopi. Di Franco Buffoni mi piace ricordare, per spiazzarmi, all’inizio quando esordisce nel rispondere che una poesia originale non è una poesia che parli di cose di cui nessuno abbia mai parlato prima. Leopardi è unico quando parla della/alla luna, non perché l’oggetto sia originale…, ma perché la sua poetica è immensamente pulsante e vitale… Questo avviene perché la poesia è un linguaggio: un linguaggio diverso da quello che usiamo per comunicare nella vita quotidiana e di gran lunga ricco, più completo, più compiutamente umano.
Poi il curatore chiede se di base la poesia sia autobiografica e salvifica. Il primo termine per me è sicuro (anche d’altro, sei tu, con le tue condizioni, a scriverlo e ugualmente quando prendi a leggere quanto scritto) e il secondo, per certi versi, lo stesso; ma la poesia ti strappa anche dalla vita, se quest’ultima la rimescoli troppo con la letteratura. Umberto Piersanti in proposito commenta che lo scrivere lo riporta a qualche evento significativo della mia vita; ma bisogna intendersi sul valore “significativo”. Corro in un prato, sotto una balaustra: niente di diverso da tanti altri episodi della mia infanzia. Ma qui l’aria è più reale, la percezione si fa più vera quasi fisica e bisogna scrivere, Dunque la poesia è per me una condizione assolutamente necessaria: debbo scrivere perché lo debbo: non farlo mi comporterebbe un vuoto doloroso. Gli fa quasi eco Fabio Pusterla che non crede al dogma dell’Es piuttosto per lui tutto si gioca… sull’equilibrio tra “l’essere scritto” e il prendere coscienza di ciò che provo a scrivere, ugualmente non sa se parlare di salvazione per la poesia. Forse scrivo perché “devo” scrivere, quale che sia il trauma eventuale; di certo scrivendo riesco a convivere con me stesso. Ma bisogna anche saper rovesciare il discorso: come sarei (come starei) se non mi fossi abbandonato alla scrittura? Donatella Bisutti conferma la domanda di Stoccoro citando il suo libro La poesia salva la vita (titolo suggerito dall’esperienza dell’architetto Ludovico Belgioioso in campo di concentramento). Perché salva la vita? Essenzialmente perché da un lato ricostituisce la nostra unità originaria corporale/spirituale e dall’altro perché ci fa fare esperienza della nostra unicità, ma al contempo del nostro far parte di un’unità cosmica.
Per introdurre Miro Silvera prima c’è da riportare quanto scritto dal suo gran Maestro assente, Jean Cocteau:
Se il poeta nutre un sogno, non è quello di diventare
celebre, ma di essere creduto. Qui comincerà il suo
calvario. Anche se la gente lo legge, essa è attratta solo
da quel che le sembra corrispondere a ciò che prova.
Non lo legge. Si legge. Non lo guarda. Si guarda. Tutte le
opere diventano specchi.
Quindi: per me la scrittura mi ha salvato la vita e ha dato un senso al mio attraversamento del mondo tanto che, a modo mio, mi ritengo idealmente un terapeuta… scrivendo non ci si deve preoccupare affatto… di piacere. A essere autentici si dura più a lungo. Anche se, ahimè, si viene capiti in ritardo. Maria Grazia Calandrone per rispondere precisa il suo senso della scrittura: non intendo la poesia come un ascolto delle mie intime profondità… ma come una discesa nella parte di noi che è la parte comune dell’umano… dove ciascuno di noi somiglia a qualunque altro sulla terra. Prima o poi mi spingerò a includere gli oggetti, l’apparentemente inanimato, in questa vasta similitudine: le ultime scoperte della fisica confermano quel che i poeti intuiscono dall’origine: la materia, l’esistenza tutta, è fatta di vuoto o di relazione così la poesia ci salva: dalla solitudine nella quale veniamo gettati nascendo – e ci salva mentre richiede solitudine al nostro quotidiano… ciascuno di noi è una moltitudine. Alessandro Defilippi identifica la salvezza nel trovare il suo significato, anche nella poesia di fronte all’ineluttabilità della morte e alla percezione dell’assenza di senso abbiamo bisogno di trovarne uno… cercare implica il fatto di credere che qualcosa esista e a noi non è dato sapere se un senso esista o se piuttosto tutto sia legato a interazioni casuali. Ma il bisogno di senso permane comunque: dunque noi dobbiamo cercare di costruirne uno, anche fittizio, per permetterci la speranza e, forse, la redenzione. Con parole più semplici e migliori, Jung disse: Il bisogno di mito è bisogno di senso.
Nella terza domanda si chiede del rapporto tra sogno e poesia (personalmente annotavo un tempo la mattina, per curiosità, le visioni oniriche – strane cose non finite – poi è stava la volta di loro; in altre, invece, stiamo per i fatti nostri). Per Laura Liberale la relazione è strettissima: la mia scrittura è fecondata dal sogno continuamente. Forse non esagero se affermo che la maggior parte di quel che scrivo non è che un tentativo di elaborare sogni e ricordi molto antichi, di ritornare alla scoperta delle «stanze dalle casa da cui ci siamo allontananti» (Sándor Márai, di questo autore consiglio la lettura de “Le braci”, non so perché ma non posso fare a meno di fermarmi, di dilungarmi, quando sento il nome di questo autore, che mi rimanda a quella sua opera di grande letteratura introspettiva e al dono che me ne ha fatto un’amica del cuore). E faccio mia questa bella frase di Julio Cortázar: «Io, tra sonno e veglia, di lavandino palombaro». Molto partecipate sono le risposte di Franca Mancinelli, che non sai da dove prendere, allora ecco ciò che ricevo in dono dai sogni ha la forza di una scossa che a volte cerco di tradurre nei versi. Ma più spesso è in uno stato di dormiveglia che sono raggiunta da alcuni lampi di chiarore; semplici moniti come “ti sei scordata la valvola del gas”, oppure lacerti di frasi, barbagli di immagini che mi chiedono di essere subito appuntati, nel buio, cercando a tentoni il taccuino che tengo sempre accanto. Schietto Tesio Giovanni che ha sentito il fuoco della necessità, una spinta irresistibile di scrivere quando lo ha fatto in piemontese. Ne sono persuaso. I sogni ci trafiggono, non sono irreali. M’è capitato in sogno di scrivere un sonetto, magnifico come la perla che nasce da un fastidio, ma di non trovarmelo al mattino. Tra sogno e poesia corre… lo stesso rapporto – o quasi – che passa tra memoria e poesia. Giovanna Rosadini specifica che la sua poesia ha una vocazione essenzialmente diurna. Ha bisogno di spazio, luce, respiro. In un solo caso ha invaso il tempo del sonno: è stato qualche mese prima dell’incidente che mi causò il coma, quando mi alzavo nel cuore della notte per scrivere letteralmente come sotto dettatura… Si è trattato di una vera, inspiegabile premonizione: sono testi che descrivono, con una precisione inquietante, descrivono, con una precisione inquietante, la condizione in cui mi sarei per scrivere, ritrovata al risveglio dal coma.
Inizialmente avevo pensato, per tutte le domande riposte, di distribuire le risposte tra tutti gli autori, poi in corso d’opera mi è venuto in mente di fissare (uso questo verbo perché l’intento è successivamente stato quello di tentare, di trovare il punto per andare in profondità di quanti consultati), i pareri sulle prime tre interpellanze, anche per avere un discorso più omogeneo e rappresentativo della poesia e l’inconscio, sempre nell’ottica di far parlare, per quanto possibile, gli scrittori. Le altre cinque richieste (sulla decifrazione dell’Es e sull’esserne fedele o meno, su come nasce e si sviluppa la propria poesia, sul rapporto tra prosa e poesia, se ciascheduno poi porta con se gli strumenti per catturare l’ispirazione e se si vuol aggiungere altro in merito) le lascio a chi vuol indagare, con la lettura, questo libro, che ho tra le mani e che si conclude con una terza parte, un’altra scelta di composizioni di ciascun’autrice e autore menzionati (la voglia di trascrivere qui qualche testo è tanta). Ricordo invece l’azzeccato disegno di copertina di Giovanni Bonaldi Ritrovando un sacco di pensieri che è un doppio salto mortale nell’esistenza.
In conclusione o postilla. Chi scrive può dire di nuovo la sua esperienza: dalla lingua alla vita al linguaggio. Il testo iniziale che ho stilato, apparentemente finito in quel tempo (inconsciamente leopardiano, compresi gli eccessi di lettere), l’ho potuto elaborare sì partendo dall’esperienza della lettura di poeti e prosatori alla corte dell’Es, ma non senza l’esperienza del lavoro di assistenza educativa verso un ragazzino, con le sue peculiarità e problematicità quando, alcune mattine, prendiamo il treno (andata e ritorno) assieme, per andare a scuola in un altro paese,
e lì che mi ha minato l’espressione.
Io sono continuamente parlato e scritto. Prima che nascessi mi parlava mia madre e mio padre, spesso parlavano tra loro… sempre poche parole. E altri mi parlavano senza che io sapessi chi fossero, neanche quando ho aperto gli occhi per capire dove cavolo ero andato a finire, neppure lì ho saputo chi fossero. Così ho cominciato daccapo l’apprendimento. E così sarà quando uscirò da questo mondo: le mie parole resteranno labilmente a parlare e la ciccia ancora prima a scomparire.
L’esperienza quotidiana fa il suo corso (quel ragazzino m’echeggia). Così anch’io parlo per qualcuno, anche o soprattutto quando non me ne rendo conto. Ma cerco in tutti i modi di vivere staccandomi per quanto possibile dalla morsa delle parole e soprattutto degli eghi, principalmente altrui.
“zitto sa’… me so scritto
addosso, all’ossu… sci…
…zitto sa’, nun dillo a
niscuno, uno, manco
a li cani ani⃰, ani, nì”
Michele Scogge
⃰chi tra quelli che fan con-
fondere vita e lettere
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