In fuga dal tempo che fugge
La raccolta poetica «Nel folto dei sentieri» di Umberto Piersanti, tra l’incedere dei giorni e l’eternità di un eden evanescente
Rocco Cavalli
[Nota: eccetto la prima citazione di Montale, ogni brano citato è contenuto nella raccolta Nel folto dei sentieri di Piersanti: per alleggerire il testo e ritenendo inutile frammentare in particolari un’opera che in questa critica si vuole e si deve considerare nel suo insieme come una entità completa, un’esperienza poetica indivisibile, sono stati volutamente tralasciati i riferimenti alla poesia da cui sono stati tratti i versi. È un invito al lettore di approcciarsi all’opera senza un orientamento stabilito dal sottoscritto, lasciandosi sorprendere in una propria personale avventura poetica.]
Quanti uomini direbbero oggi di sentirsi stretti da un «feroce legame con la terra»? Forse parecchi. Quanti sono catturati dall’impellente bisogno di scriverlo? Probabilmente pochi. Sotto questa luce, non si può esitare a considerare il poeta Umberto Piersanti, autore della citazione, una rarità fra gli uomini del suo tempo. Eppure, non è nella natura stessa del poeta di essere rarità tra gli uomini? Ma se è vero che il poeta è poeta con la sua poesia, sarà forse nella forma del verso, forse nella musicalità, forse nell’emozione che scatena, che va cercata la rarità; mai nella realtà che descrive. Perché se certo è quanto afferma Montale, ovvero che «la vera poesia ha sempre il carattere di un dono»[1], il dono del verso è effettivo soltanto se la realtà che lo genera funge da ponte fra il poeta ed il lettore. Non è difficile accorgersene, in fondo basta chiedersi quale effetto ci facciano parola e verso, se esiste un effetto e dove questo si insinua. La poesia di Piersanti ottiene il suo effetto facendosi voce di una realtà che tutti vivono proprio per il fatto stesso di vivere, ovvero la realtà del tempo che inesorabile relega il presente al ricordo, la gioia alla nostalgia. Le lance degli uomini si spezzano nel vano tentativo di conquistarsi un’eternità, di fermare il tempo nei momenti migliori e di cristallizzare la memoria per poterla rivivere. Il tempo «che procede / e sempre incalza», la sua paura e la volontà di ribellarvisi è quanto di più condiviso si possa trovare tra gli uomini. Facendone oggetto della sua poesia, Piersanti sceglie di essere uomo alla radice, senza fronzoli di rarità personali: comune al lettore è la paura, comune al lettore è la ribellione. Ognuno incrocia la spada che ha con sé, il poeta incrocia la spada della poesia: ecco la poesia affiancare l’uomo nella ribellione, ecco che la poesia può davvero avere il carattere di un dono: «al tempo che m’incalza / e che m’assedia / s’oppongono tenaci le parole».
La ragione insegna che lottare per ribellarsi al tempo è come darsi ciecamente ad una battaglia persa. Eppure quante cose insegna la ragione, che il sentimento mai potrà imparare? Tra tutti, amore è l’alunno meno disciplinato, un nulla può trarlo in inganno… «lei era come l’aria / di quei giorni, / azzurra e chiara / come il suo lungo nome, / come l’età / che credevamo eterna». Certo, nell’istante il sentimento vince, per un attimo la corrente del tempo s’arresta… «la morbida ragazza / accoglie l’uomo, / è tenera e distante / come conviene, / dagli anni lo ripara / e dai dolori, / dalla fuga dei giorni / che mai ha tregua». Eppure proprio nell’abbandonarsi al ritratto del sentimento, la poesia riesce a rimettere a fuoco quell’insegnamento crudo di ragione ed esperienza. La poesia stessa diventa maestra disillusa, sa che ogni cosa cederà al tempo: «anche la viola cede / alla gran vampa / e spunta l’aglio bianco / tra i pini e il mare, / ma favagelli e viole torneranno / e questo ti consola / ma poi pensi / che agli umani non basta /che altri umani / seguano nel tempo / come basta ai fiori». Ogni cosa cederà al tempo, ma l’uomo non lo sa accettare, anzi continua ad illudersi che un modo ci sia per sfuggire alla corrente dei giorni. Più saggia dell’uomo è la natura, la natura conosce il tempo: nel ciclo delle stagioni l’uomo può riuscire a trovare consolazione. Perché un futuro ci sarà sempre, perché nuovi affetti e nuova vita nasceranno comunque, anche se il tempo incalza.
Una simile consolazione appartiene ad un programma poetico spiccatamente contemplativo. Il poeta è l’osservatore, l’osservazione arma la forza del verso. Per entrare in questa prospettiva di idee, insomma per disporsi ad una degna ricezione del dono poetico, Piersanti richiede al lettore di rivalutare il proprio paradigma teleologico. Che non sia proprio l’incongruenza, tra la volontà di sfuggire al tempo e la brama di conoscere la propria destinazione in un tempo futuro, il problema che impedisce all’uomo di godere gli agi di un riparato eden eterno? Quale senso avrebbe allora porsi sempre e ripetutamente in prospettiva di una meta, della destinazione intermedia così come del fine ultimo? Per il poeta osservatore la scelta è chiara: il cammino, non la meta è quanto ha di fronte agli occhi… «passano le figure / sotto la mole, / non sai da dove vengono, / dove andranno, / ma tu sei lì nel mezzo / che cammini». Il poeta si sente catapultato nel mondo, fra l’umanità ed il suo flusso di vicende, imbrigliato nella corrente del tempo che scorre. Il poeta non conosce l’origine e la destinazione di questa vita che osserva, perché il suo punto d’osservazione è volutamente fuori dal tempo, in una prospettiva istantanea che è la sola dalla quale si possano osservare la vita e la natura alla ricerca dell’estetica, del sentimento, dell’eternità. Non è il fine che conta, perché il fine deve essere per forza speculato; a contare è l’istantaneo che la poesia può per un momento cristallizzare. Utopia sarebbe poter rendere eterno questo istantaneo, ovvero raggiungere l’eden, eppure è un dono poterlo incidere nel verso.
È coraggiosa la scelta di non interessarsi ad un fine, o meglio di non interrogarsi se esso esista o meno e soprattutto, nell’eventualità per cui esso esista, di accettare la sua inconoscibilità. Eppure è vero che «la fuga dei giorni / sposta il traguardo avanti, / sempre, sempre più avanti», che gli interrogativi si sommano e la risposta di un poeta osservatore non può e non vuole lasciare la natura e i paesaggi dell’ora per speculare sui contorni indistinti del poi. «ma il cavaliere conosce / la sua meta? / sa dove conduce / la bianca strada? / la meta, quella / neppure la sospetto, / ma le colline sì, / sono le mie, / salgono in fitta cerchia / fino al Petrano». E se la meta non fosse proprio dietro quelle colline? Destino dell’uomo è di credere sempre che dopo l’ostacolo giunga in qualche modo il luogo definitivo, «ma questa è un’illusione, / la più tenace / che per tante stagioni / t’ha accompagnato, / e sogna il cavaliere / la bianca strada, / un luogo non l’attende, / il suo cammino / un cammino eterno / e infinito». È un’osservazione dura da accettare, la teleologia rimane il quesito centrale della vita per chi non riesce a lasciare il paradigma. Eppure esiste un altro mistero, il mistero de «il cammino tenace, / nostro, nel mondo», quel mistero che il poeta può osservare e che il verso è in grado di descrivere. Gabbiani, libellule, balestrucci e tutta la natura con loro sono l’affermazione continua del mistero: «forse non c’è una meta / che le attende, / ma riprendere il volo / è necessario».
L’osservazione – intesa nella sua accezione più ampia – non è soltanto il motore percettivo che genera il verso, non è soltanto la musa suggeritrice, fa pure parte della strategia che l’uomo poeta adotta per sottrarsi alla corrente del tempo, per provare la gioia inconsueta dell’attimo. Il godimento di un completo abbandono ai sensi può allontanare il poeta dalla fuga del tempo e dalla prigionia degli uomini che con esso fluiscono via, ponendolo in una prospettiva esterna: «così passano le ore / sul lungomare, / nella panchina siedi / e godi l’aria, / il fiume degli umani / ti passa accanto, / tu in disparte lo guardi / e non vi entri». Se il compimento dell’osservazione necessita di una prospettiva esterna e dal momento che il poeta sceglie di mantenere questa prospettiva, per forza verranno ad aprirsi dei quesiti di ordine etico. L’osservatore deve rimanere passivo o è chiamato a intervenire per il bene di quanto sta sotto i suoi occhi? L’osservazione contempla la facoltà di agire? Lo spunto per la domanda arriva al poeta in «un giorno perfetto» sul mare, quando ad un tratto l’armonia si infrange contro la fatica di un granchio che invano cerca di riguadagnare l’acqua sfidando l’onda che lo sospinge indietro. Salvare il granchio? Fino a quando si può rimanere esterni al correre della vita altrui, sospinta dal tempo? «ma se tu lo sollevi / e dentro l’acqua posi, / non infrangi la legge / che t’impone / una diversa vita / lasciare alla sua sorte?».
Ancora una volta è la natura che suggerisce a Piersanti la profondità del suo verso. Certo, sarà perché la natura è il soggetto primario della sua osservazione. Eppure, non a caso la natura è stata scelta: maestra limpida si è dimostrata, via di fuga si sta rivelando. Infatti, le stagioni e i cicli sono quanto di più rassicurante possa trovare un uomo assillato dal correre dei giorni. Il rinnovarsi annuale della promessa di una fioritura, di un frutto maturo, della migrazione della rondine, della neve che cade è la dimostrazione di quanto la natura riesca a mai soccombere al tempo, di quanto la natura conosca il tempo. Così tanto da poter impegnarsi in una promessa sempre mantenuta, nella promessa di una vita che continua anche senza la certezza di una meta. Addirittura il tempo si lascia da lei plasmare: il ritmo del tempo è scandito dalle stagioni e queste stagioni si esprimono grazie al fenomeno naturale. Il tempo impone alla natura dei ritmi, ma proprio con l’espressione di questi ritmi la natura situa il tempo e ne restituisce l’istante.
La natura per Piersanti non è quindi soltanto un’espressione di perfetta pace cromatica e sensoriale, è addirittura il tempio e il paesaggio di evasione dalla prigionia del tempo. Nella natura la fuga dal tempo – e quindi il superamento, seppur illusorio e seppur questione di attimi, dell’afflizione del poeta di fronte alla fuga del tempo – trova la sua realizzazione. È con questo approccio percettivo che la natura si affaccia alla soglia del suo poeticissimo fascino.
La natura non viene però mai meno al ruolo per cui è stata scelta: il ruolo di insegnante. Infatti, se ogni stagione dà il sollievo di un ciclo che si rinnova, inevitabilmente riporta la mente ai cicli trascorsi. La natura scatena la memoria. I ricordi si arrampicano a ritroso su per il tempo, inevitabilmente risvegliano al sentimento le morte stagioni, fino ai tempi dell’età infantile, quei tempi in cui è facile dimorare incontrastati in un eden dalle parvenze d’eternità. La memoria diventa dolorosa, la memoria cede al tempo, la memoria cede all’ossessione della meta al termine del cammino. «tenace è la memoria / che s’ostina, / tenace a dare un senso /ad ogni cosa». Ritorna, mai scalfita, la disillusione di fronte allo scorrere del tempo, alla prigionia di quel destino che al di là di ogni cosa si vuole sempre e comunque cercare. Eppure il poeta ha potuto fare esperienza della libertà, i suoi versi glielo ricordano, i suoi versi sono la fotografia indelebile dei contorni di un eden. Il monito dei suoi versi è lampante: «il tempo non scegliamo / e le vicende, / l’unica libertà / resta la fuga, / così fragile e breve, / così assoluta».
Ma come fuggire? Il poeta ha nella sua linfa gli strumenti contemplativi con i quali ha potuto progettare il suo dono poetico, il poeta è però anche uomo in un corpo e con tutto il suo corpo vuole poter fuggire. E se il corpo non è atto alla fuga, perlomeno che possa partecipare alla metafora… Piersanti è cosciente della problematica di mirabili fughe mentali a dispetto di un corpo in catene; seppur con cautela decide di affrontarla disseminando nella sua raccolta poetica tracce di un incipit fisico alle proprie fughe poetiche. Ricorre infatti il tema dello sdraiarsi, nell’erba o sulla sabbia, e di godere della nuova prospettiva per sfogare la metafora della fuga in un effettivo transito entro la dimensione poetica delle proprie esperienze… «se la testa distendi / nella chiara rena / è come entrare / dentro l’erba spagna, / quando ai gabbiani assorti / in cima all’onda / t’avvicini nel sole / che ormai scompare / è come arrampicarsi / su per le querce / ai nidi di verdoni / che stridono di collera / e paura». Sdraiarsi significa nascere in un nuovo orizzonte percettivo: «solo adesso lo sai / che tra erbe e acque / da nodi inestricabili congiunte, / uguale è la tua sete / d’entrare e perdersi, / solo se lì t’immergi / e ti sprofondi / la sorte degli umani / puoi scordare».
È proprio l’atto della nascita che va innescato, perché la nascita è il simbolo di un momento d’assoluta novità, di sorprese e di scoperte che lasciano una traccia persistente. Se estendiamo la considerazione all’intero periodo infantile troviamo forti echi di queste esperienze indelebili in tutta la poesia di Piersanti. Il poeta non riesce e non vuole sollevare il velo di magia che circonda il tempo che l’ha visto bambino, anzi quel periodo è così tipico e caratteristico che pare essere stato vissuto da un’altra persona, in un altro mondo: «l’infanzia altro corso / segue della storia, / mai come allora / accesi sono i colori, / e tulipani rossi». Rossi più del sangue, più della guerra, che coinvolge i primissimi anni di vita di Piersanti. Eppure è proprio nel sangue che il poeta porta le tracce indelebili della sua vita infantile: spesso ricorre nei versi il tema delle esperienze, dei colori visti e dei giorni vissuti, che «t’entrano dentro il sangue / giù tra le vene», che lì vanno richiamati al presente, come da un archivio di solidissime memorie.
La nascita non è soltanto motore della meravigliosa esperienza infantile, la nascita osservata è motore di una profonda riflessione. È una valvola di sfogo per le domande irrisolte. Capita ad esempio, pressappoco all’inizio della raccolta poetica, che Piersanti racconti di una viola nata in inverno il giorno di Santo Stefano. È una viola destinata ad una morte veloce, vien da chiedersi: «che senso ha la vita / per chi nella vita dimora / un solo istante? / la fatica del nascere / a che serve?». Il dono della nascita e allo stesso tempo il dono della poesia che può raccogliere la fotografia sentimentale dell’evento devono la loro grandezza alla forza di questa viola. Una viola che ha il coraggio di nascere anche quando attorno a lei regna l’inverno, è il modello per la continua nascita cui ambisce il poeta. In fondo questo evento non può che essere fonte di gioia: «nata fuori stagione, / subito spenta, / questa viola d’inverno / mi rallegra, / la primavera cova / sotto il gelo // per quelli nati / e morti alle pareti / nessun annuncio c’è / di primavera, / ma il dono della nascita / permane».
Pensare all’inverno induce uno schema metaforico quasi automatico ad ogni lettore, ovvero l’idea dell’inverno buio, freddo, che bisogna sopportare nella speranza della primavera. Per Piersanti non è così, o perlomeno lo è molto di rado: l’inverno è infatti la stagione più ricorrente nella sua poesia, ma quasi sempre non è carico di un’accezione negativa. L’inverno è pur sempre la stagione in cui è nato, in cui il suo lieto evento personale si è verificato. Anzi, l’inverno è carico di un fascino introspettivo, così come è carico di un sentimento d’intimità casalinga, della dolcezza di un tiepido focolare pascoliano. L’inverno per Piersanti è la stagione poeticissima, anzi è proprio la sua poesia a farsi straordinariamente simile ad un inverno Allegro non molto di vivaldiani ricordi.
[Inciso di tema musicale poetico – In questo vivaldiano inverno, già dalla prima nota si svela un incedere ritmico, regolare e logorante, dei violini (o della vita?). Il ritmo incede, senza lasciar intravedere una meta, sia essa esistente oppure no. Incede e incede. Ecco che un violino improvviso rompe per un momento, fuori dalla corrente dell’orchestra – in un proprio eden immobile rispetto al tempo? – questo ritmo. L’orchestra prosegue, ma le catene dell’incedere iniziale si fanno strette, sembra sul punto di incespicare. Ecco di nuovo quel violino libero, fuggito dal tempo, regalare all’orchestra un passo più sereno. Il ritmo persiste ancora per qualche battuta, poi però il dono decolla grazie ai primi coraggiosi violoncelli: l’orchestra ora segue quel violino, quella voce dall’eden. Una finestra d’eternità s’apre nelle corde. Eppure non siamo alla meta, perché la meta non c’è. Quasi ad accorgersene, proprio il violino coraggioso si riaffaccia ad un ritmo. È però il ritmo della natura invernale, un ritmo tenace, ma sicuro di sé. I violini sanno che le note ritorneranno, il ritmo della natura mantiene le sue promesse: le stagioni seguiranno il ciclo.]
Come le stagioni tornerà il presepe, simbolo forte dell’intimità famigliare e domestica invernale ma soprattutto di Natività alla massima potenza. Gli echi del sacro e del religioso nella poesia di Piersanti sono ben circoscritti e si rivolgono al solo tema natalizio, peraltro abbastanza frequentemente richiamato proprio grazie all’immagine del presepe. Non a caso è il presepe la raffigurazione del Natale maggiormente legata alla natura, sia per la scena raffigurata – pastori, animali e capanna – che per i materiali con i quali si costruisce. Si tratta insomma di una Natività bucolica, dell’immagine di Natività più poetica… «da sempre uomini e piante / e terre e cieli, / pastori coi canestri / e re coi doni, / questa capanna unisce / e rasserena». La poesia può sfruttare il suo potere comunicativo per accedere alla sfera della sacralità e proprio per questo diventa facilmente una preghiera laica. La preghiera non è infatti esattamente il tentativo linguistico (o poetico?) di una comunicazione con il sacro? O meglio di una comunicazione rivolta ad un’entità paterna, verso cui si prova un amore nostalgico?
Non manca nella poesia di Piersanti la memoria persistente del padre, inseparabile dall’età infantile, verso cui il ricordo divenuto magico nostalgico fa rimbalzare e attribuisce l’idea di una potenza sentimentale irripetibile. L’esperienza assunta con il proprio padre è in evidente parallelo con il ruolo ora assunto dal figlio divenuto genitore. È un ciclo che si chiude, che continua, entro le cui spire fa però capolino il figlio Jacopo, il figlio amatissimo ma che rappresenta con il suo autismo una sfida inedita della paternità. A lui sono rivolte molte delle poesie della raccolta Nel folto dei sentieri, come d’altronde ogni poesia di Piersanti ha la necessità di dialogare con qualcuno. Questo qualcuno può anche essere sé stesso, nell’incontro con il proprio io in un altro tempo, in un altro frangente della vita. Lo spunto può essere una fotografia: «ah, potere rientrare / dentro la foto, risentire / il sangue e le figure, / no, non così grigio / il muro lo ricordo»
In fondo è proprio nel dialogo con le nostre emozioni che la poesia manifesta il suo dono. Eccoci qua, tutti i lettori sono degni del dono della poesia di Piersanti, perché tutti i lettori sono allo stesso modo toccati dagli interrogativi che essa suscita e pone sotto osservazione dal suo particolarissimo orizzonte percettivo.
Avegno, 11 novembre 2017
[1] Citazione scovata in: Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2007, 4a di copertina.