Gli anni urbinati di Antonio Melis
È trascorso all’incirca un sessantennio dacché Antonio Melis giunse con la sua famiglia ad Urbino. Aveva allora una quindicina d’anni: la stessa età del gruppo di ragazzi (una compagine in un certo senso unica, senza dubbio alcuno singolare) cui si legò di un’amicizia mai venuta meno nel tempo e con alcuni di noi persino rinsaldata, quantunque le frequentazioni dovessero di necessità diradarsi dopo la sua partenza per Padova e il successivo passaggio nel capoluogo toscano (dove ci si vide ripetute volte con i collaboratori fiorentini, lui incluso, per riunioni redazionali della rivista che avevamo fondato, «Ad Libitum») e poi, a maggior ragione considerando la distanza e i monti dell’Appennino innalzati a bastione, nel suo definitivo approdo senese.
Antonio veniva coi suoi da quel di Bismantova; agli occhi di giovani che avevano nel loro orizzonte una volontà di indipendenza e autonomia dalle istituzioni perseguibile attraverso la cultura, appariva normale che quel territorio in qualche modo d’origine evocasse Dante, da lui comunque costantemente richiamato al riguardo della località emiliana. Il rimando alle pareti del Purgatorio si attagliava ovviamente anche agli ardui acclivi di Urbino, uno dei quali definito significativamente “Montata” (all’esterno di una parte della cinta muraria) mentre un altro era semplicemente chiamato da tutti il “Monte”.
L’ininterrotta percorrenza di salite e discese che caratterizzava le nostre passeggiate di aspiranti intellettuali quasi in itinere, ci immetteva in una dimensione vagamente aerea, del resto tipica della città (riflessa nelle poesie di Paolo Volponi). Un’immagine, questa del camminare, forse ingenua e provinciale ma ugualmente fervida. Il tratto geocentrico (per dirla con linguaggio contemporaneo) dentro il quale si davano le condizioni di una educazione ai sentimenti e alla intelligenza delle cose.
Tutto ciò avveniva a malgrado degli impegni scolastici e delle attività sportive e parasportive nelle quali alcuni di noi, tra cui ovviamente Melis, si ritrovarono coinvolti. Ma come ho detto sopra, furono spontanee inclinazioni culturali a farci stare insieme, accanto ai motivi di un’amicizia che comunque si fondava su presupposti di affinità. Di più: era la consapevolezza di come la scuola, pur ritenuta da ognuno di noi formativa, non riuscisse a stare al passo con quella che percepivamo come cultura contemporanea, a sospingerci a uno sfocio all’esterno che in fatto infoltì le occasioni d’incontro, che proprio per la loro casualità dovevano essere ordinate e ancor più giudiziosamente calibrate e pensate.
Sugli inizi, l’ho detto, furono interminabili ascese a mediare e a promuovere la nostra operosità. Chi appena conosca la struttura urbana di Urbino riesce a intuir il senso di quel continuo spostarsi. Si percorreva in lungo e in largo il portico cittadino per giungere nelle stradette e piole adiacenti del centro storico e nei cammini della campagna circostante. L’andare con bella energia tanto fisica che mentale scandiva in qualche modo il ritmo del nostro ragionare e confrontarci.
Tutto ciò in un intenso coinvolgimento rispetto alle questioni grandi e piccole, essenziali e anche andanti, che ci potevamo porre. Le prime suggestioni politiche ad esempio (Antonio, curiosamente, si professò nei primi tempi monarchico); oppure l’immagine della cultura e dei rapporti quotidiani da improntare a una idea moderna di società. Forse non stravagantemente per un ragazzo, Melis riteneva indigeribile l’opera lirica, era fuori di ogni logica che si potesse annunciare con acuti o do di petto che gli spaghetti erano pronti sulla tavola; ma per altro verso sosteneva un legame di parità tra i sessi almeno sul piano di un galateo quotidiano e sentimentale (il fatto che le donne non dovessero sempre attendersi che gli uomini pagassero per loro).
Ogni cosa avveniva comunque in maniera naturale, non c’erano infatti noiose e inutili superfetazioni intellettualistiche. Forse agiva la suggestione della città e dei suoi dintorni, delle sue memorie come della pungolante ed algida fisicità d’aria e vento. Stavamo – invece che nello stereotipo – in un tessuto vitale affine a quello di tante altre regioni e centri italiani: e comunque quel modo di conoscersi rappresentò per tutti un’esperienza decisiva, nella quale ogni sfumatura pur provvisoria poteva porsi come essenziale.
Eravamo inconsapevolmente e in una qualche misura gli happy few di stendhaliana memoria, cui un luogo bellissimo e tradizioni culturali e civili affidavano il senso della realtà: Antonio Melis evidentemente, e poi Luciano Fabi, Zeno Fortini, Antonio Pacini, Umberto Piersanti e me che traduco su carta queste rapide note, Gualtiero De Santi. Un mannello di ragazzinetti e giovincelli di belle speranze, che ancora non conoscevano il senso di una generazione che avrebbe dato un’impronta agli immaginari dei primi anni ’60 e poi di quelli successivi (e che non pensavano affatto di rappresentarsi nel conflitto con famiglia e società).
Lo ripeto, le affinità che allora avvertivamo erano a stretta vocazione culturale e adolescenziale. Proprio per questo occorreva porre un freno allo stato di sospensione in cui ci ritrovavamo (quel che i tedeschi oggi definirebbero Schwebenzustand). Serviva dare un ordine alla iridescente fenomenologia che vivevamo ogni giorno, e in ciò le sollecitazioni di Melis furono determinanti: era il meno provinciale di tutti noi, il più preciso e rigoroso ma anche un tantino giansenista e grillo parlante. Per vocazione e predestinazione e volontà il più bravo di tutti, prediletto dai suoi professori di Liceo (Antimo Negri, la laica Pierini), stimato dai compagni di classe che ammoniva a che fossero solleciti nello studio, pena l’inevitabile bocciatura.
Ma tornando al nostro gruppo, era nell’ordine delle cose che non si potesse (e volesse) incontrarsi su un terreno di progettualità culturale e politica, che sarebbe arrivata in seguito, negli anni universitari. Eravamo consapevoli dei limiti che un’età ancor giovane e le esperienze irrelate imponevano. A prevalere, era un principio di amicizia e di intercomunicazione, gestite da ognuno di noi nei tempi slegati dai doveri scolastici e familiari.
Liberavamo energie ancora acerbe assimilandoci nella nostra fiduciosa flânerie a comuni abitudini e, se così si può dire, a una specifica antropologia e sociologia degli adolescenti del tempo. Il cui solo nesso possibile rimaneva quello analogico di una imprevista correlazione associativa da costruire e garantire.
Tutto questo andava comunque accavallandosi in percorsi fantastici e sul reticolo di carreggiate mobili e sempre nuove: che tuttavia necessitavano di organizzazione e contenuti reali. Così le nostre riunioni, da occasionali e casuali che erano, imposero a un certo punto una specie di programmazione. Giacché a mente di Antonio (il nostro maestro ordinatore) non si poteva continuare a ritrovarsi e rimuginare per strada.
Sicché ci si convinse ad acquisire un nome: CGU, acronimo che stava per Circolo Giovanile Urbinate, e si dovette trovare un vero luogo d’incontro pagandolo coi nostri contenutissimi risparmi, una stanzetta che adibita a sede per le riunioni offrisse anche una qualche visibilità all’esterno. L’uguale che comunque noi già si riceveva dal tabellone affisso a una colonna del portico del Collegio Raffaello (quello in cui era stato ospite da adolescente Giovanni Pascoli), che si apriva appunto sulla piazza principale di Urbino e dove i cittadini curiosi e volenterosi avevano modo di conoscere le nostre opinioni. Iniziavano in tal modo, quasi in sordina, esercizi di scrittura e congiuntamente di lettura, ognuno con un proprio orizzonte di preferenze (Pacini ad esempio si richiamava a Verga, alla tradizione).
Soprattutto però, serviva mettere energicamente a fuoco le occasioni e motivazioni del nostro dialogare: distribuendo nell’arco di un periodo che avremmo dovuto delimitare – mese, trimestre e persino anno – gli argomenti e i materiali sui quali portavamo una attenzione critica e conoscitiva, in massima parte libri ma anche spettacoli teatrali, mostre e film.
Fu così che ci demmo un percorso di lettura e discussione di testi più o meno classici: l’Iliade ad esempio, nella idea un po’ velleitaria di ripercorrere sia pur per sommi capi la storia della letteratura mondiale e, prima che ci impegnassimo sul capolavoro di Omero, le avventurate controversie di Don Camillo e Peppone mediate dalle ridanciane e di per sé godibili variazioni di Giovannino Guareschi che classiche non erano per niente e che furono proposte proprio da Melis forse in ragione della sua provenienza geografica e dunque di una conoscenza pregressa di quei testi – scelta a me non gradita e che dunque non avevo per nulla caldeggiato. Altra cosa era nel mio personale sentire la letteratura italiana del tempo.
Seguirono altri volumi e altri autori, tra i quali se non vado errato Miguel de Cervantes ovviamente col suo Qujote (un destino e una premonizione per Antonio). Ulteriori stimoli arrivarono dal contenuto dei brevi articoli che dovevamo preparare per la nostra tabella del CGU: interventi sul jazz, cui mise mano numerose volte anche Antonio; un succinto e appena informato plaidoyer in sostegno all’Opera da tre soldi che tra polemiche e clamori andava in scena al Piccolo Teatro di Milano (si trattava della storica prima edizione realizzata da Strehler con l’approvazione di Brecht); qualche recensione o segnalazione di film: ricordo in particolare un mio intervento su Œil pour œil di André Cayatte, arrivato fresco fresco dalla Mostra di Venezia.
I volumi antichi o appena editi, le varie chiacchierate, quei resoconti volanti ma intensi e operosi che si elaboravano in una forma latamente seminariale, erano segnali di una esperienza più ampia, come non poteva che essere quella di ragazzi poco più che adolescenti e come era in fatto di Antonio Melis, il più maturo di tutti noi. Questo genere di attività non si limitava evidentemente ai libri e alla cultura, ma si estendeva anche ad altre esperienze. Per lui, per Antonio, contarono ad esempio quelle agonistiche all’interno della scuola a cui era iscritto, il Liceo Classico Raffaello, e collegatamente del CUS, il Centro Universitario Sportivo della città.
Rimangono diverse foto a rendere ragione della sua gagliardia e del fulgore della sua bella giovinezza. Eccelleva nella corsa di mezzofondo: negli 800, 1500 e 5000 metri. Questo all’uguale stregua di Luciano Fabi. Entrambi vennero ripetutamente ingaggiati in gare pei campionati provinciali e regionali, sempre ottenendo i migliori risultati. Luciano Fabi (che era il nostro appassionato ed esperto di musica classica) rammenta e cita tuttora un episodio che li vide entrambi protagonisti. Nel corso di una competizione aveva superato Antonio, per cui quest’ultimo dovette rapidamente congegnare la rimonta: un recupero portato ad effetto con fraternissima lealtà ma anche con determinazione. Prevalse lui, Melis: ma confessò di aver seriamente temuto la vittoria dell’amico-concorrente. «M’hai messo paura», disse: e il timore era non essere per una volta primo (e comunque a proposito di paure si debbono anche menzionare le attività di ciò che noi chiamavamo “Sezione scientifica”, cioè l’azzardo di spiritismi portati ad effetto grazie alla eccentrica strumentazione di un setaccio – ma anche in questo eravamo portatori di una scherzevole e tutta giovanile serietà).
Un’altra avventura in qualche misura agonistica fu una impegnativa passeggiata sulla Cesana, il monte più prossimo a dominare Urbino. Si vociferava di un vulcano spento, nei cui cunicoli fosse possibile calarsi. Partimmo in quattro: Antonio con Pacini, che era il fratello dell’astrofisico scomparso alcuni anni fa il quale ultimo partecipava saltuariamente ai nostri incontri; io con Piersanti, ambedue di molto meno agguerriti sul piano competitivo e dunque destinati a rimanere indietro già in fase d’ascesa. E anche a subire il disdegno del duo Pacini-Melis, cementato da un qualcerto altezzoso sussiego nei riguardi della scarsa prestanza a gareggiare da parte di me e Piersanti.
Comunque, quello delle avventurose e anche perigliose escursioni è un classico della fenomenologia adolescenziale e giovanile, tradotta per altro in numerose narrazioni. Per stare a quegli anni Cinquanta, me ne viene in mente una alquanto colorita di Jack Kerouac risalente al ’54-55, ma nel nostro caso la gita al vulcano spento sarebbe poi stata raccontata da Umberto Piersanti nel suo primo romanzo, L’uomo delle Cesane. Ad ogni buon conto, lo slancio di ognuno di noi ebbe un esito positivo e la giusta ricompensa: per me fu nel dopocena la visione, nello storico Cinema Teatro Ducale di Urbino, de Le notti di Cabiria di Federico Fellini (per altri di Colui che deve morire di Jules Dassin, programmato nell’altra sala cinematografica).
Infine Melis traduceva la propria attenzione su tutto, o quasi tutto. Ricordo una conversazione che ebbi con lui sulla colonna sonora de I soliti ignoti, più precisamente sul fatto che essa fosse stata scritta da un musicista jazz, Piero Umiliani e che fosse, sia pur in termini moderati, autentico jazz. E conservo tra le mie carte una sua vivace lettera da Padova dove, dopo il non effimero soggiorno urbinate, si era trasferito coi suoi. Mi ragguagliava tra le altre cose sulle iniziative del locale Circolo del Cinema, più in particolare sull’allestimento di una personale di Carl Th. Dreyer, con la programmazione di film mitici per noi che al massimo li potevamo aver visti una sola volta nei rarissimi cineforum universitari: La Passion de Jeanne d’Arc e Dies irae.
Va da sé che non si parlasse soltanto di cinema. Ma il cinema era allora l’ambito in cui io personalmente potevo vantare più vaste competenze e anche conoscenze rispetto ai miei compagni. Una passione che accendeva mente e corpo, che doveva però anche appartenere ad Antonio. Se, come mi confidò con segni d’intesa anni dopo, aveva chiamato il suo primogenito Guido in riferimento al battagliero e polemico direttore della rivista «Cinema Nuovo», ovviamente Guido Aristarco (anche se per la prima moglie di Antonio, Rossana Freda, la scelta era dovuta a letture fatte per gli esami di abilitazione e più in particolare al sonetto in cui Dante si rivolge a Guido Cavalcanti, l’amico della sua giovinezza).
Infine, un fervore di iniziative e di percorsi formativi, ma soprattutto cognitivi, quello degli anni urbinati di Antonio Melis, dove erano in campo ambizioni e talenti personali. E un rigore etico e culturale, che forniva lo stigma a tutto quell’attivismo di cui Antonio era in qualche modo il garante. Per questo ci richiamava soventi volte a un ordine interiore e alla precisione formale, nel pensiero come altrettanto nella scrittura. In nuce c’era già il raffinato saggista e l’intellettuale che avremmo conosciuto in seguito.
Gualtiero De Santi