La morte di Dario Fo è concisa, lo stesso giorno, con l’assegnazione del Premio Nobel alla Letteratura a Bob Dylan. Giovedì 13 ottobre si è avuta la riprova che il mondo letterario perde sempre più colpi. La cosa del tutto singolare è che stavolta questa oscillazione in basso viene decretata dalle istituzioni. Premetto che non amavo Dario Fo, ma neppure lo detestavo. Mi lasciava indifferente e l’ho seguito ben poco. Occupandomi di critica letteraria da più di vent’anni, so bene, però, come nell’ambiente non fosse stata accolta positivamente l’assegnazione del Nobel al guitto, al saltimbanco, mentre era considerato il poeta Mario Luzi, tra gli italiani, il più titolato a ricevere lo scettro. Non successe e ce ne dispiacemmo in molti. Un verseggiatore, un attore più che un autore, un guascone con doti eccezionali, non ha deciso il suo destino sulla pagina, ma sul palcoscenico. Fo era un autore a metà, perché molto altro e molto di meglio che un autore. La scelta dell’Accademia di Stoccolma sembrò una virata verso il mondo dello spettacolo.
A distanza di vent’anni, la vittoria di Bob Dylan conferma questa tendenza che investe l’Europa e il destinatario del Nobel, un americano. Il menestrello, il cantautore, e non lo scrittore. Non Don De Lillo o Philip Roth, ma Bob Dylan. Giorgio Caproni diceva che la poesia è già musicale, la canzone no, per questo ha bisogno dell’accompagnamento dello strumento. Alcuni testi musicali, di per sé, non hanno senso poetico, né suono, né profondità. Anzi, sono piuttosto banali, una volta presi alla lettera. È appunto l’apparato musicale che crea l’atmosfera. La Svezia sovverte questa concezione e snobba i poeti, i narratori, in favore di un cantore ambulante. Eugenio Montale non avrebbe mai vinto il Nobel per la musica, ma la giuria, seguendo il criterio alquanto discutibile di quest’anno, avrebbe potuto stravolgere i ruoli. Siamo al paradosso: il guitto e il menestrello hanno invaso un’area che non appartiene granché alla loro sfera creativa. Se la letteratura non ha più la forza persuasiva di un tempo, sia nella concezione comune che da un punto di vista editoriale, il Premio Nobel edizione 2016 le dà una mazzata tra capo e collo. Leggendo i quotidiani, da Irvine Welsh ad Alessandro Baricco, a Valerio Magrelli, a Giuseppe Conte, c’è chi si interroga sulla decisione di equiparare libri e canzoni. “È come se dessero un Grammy Awards a Javier Marias”, sostiene Baricco, ”perché c’è una bella musicalità nella sua narrativa”.
La cosa fa ancora più specie se si pensa che era in corsa il siriano Adonis, considerato il più grande poeta del mondo arabo del ventesimo secolo. Dylan al fianco di Sartre, Neruda e Marquez. La concezione fasulla che i poeti di oggi siano i cantastorie, prende corpo. È tutto da rifare, se il rock la spunta sui versi di Adonis, virgiliani e leopardiani, improntati sul dialogo e sulle civiltà. “Una cosa si era distesa nel cunicolo della storia / una cosa adorna, esplosiva / che trasporta il proprio figlio di nafta avvelenato / al quale il mercante avvelenato intona una canzone. / Esisteva un Oriente simile a un bambino che implora, / chiede aiuto /e l’Occidente era il suo infallibile signore. / Questa mappa è mutata / l’universo è un fuoco / l’Oriente e l’Occidente sono una tomba / sola / raccolta dalle sue ceneri”. Non crediamo che Dylan abbia creato una nuova espressione poetica, ma una dirompente originalità musicale. La grande tradizione dei versi si illumina altrove, come nei versi di Adonis.
Alessandro Moscè