Lettura di
Passi Passati, di Eliza Macadan, Edizioni Joker, 2016
Continua ad intrigare in poesia Eliza Macadan, con questa nuova raccolta Passi passati, che dilata il suo tema – ossessione già presente nel precedente libro Anestesia delle nevi del 2015. Ritorna la sua disincantata visione della deriva del mondo e s’intensifica l’amarezza nel riconoscersi inerme di fronte alle macerie umane, ma in questo libro appare più netta la sua posizione sul versante civile, quel grido contro il gelo-indifferenza che in Anestesia delle nevi è metafora della negazione di ogni incontro.
Rivelatori al riguardo sono i primi tre testi della prima sezione, dall’emblematico titolo “inversi”, che allude all’inversione antropologica, un vero e proprio capovolgimento di valori che pervade la vita contemporanea. La prima poesia ha un incipit esplosivo e subito chiarificatore di visione:
io sto da questa parte del tempo/ tu dall’altra/ fra noi l’eternità/ spacca gli specchi…
In questa poesia come nella successiva si rivelano forze antitetiche, veri antipodi dell’umana vicenda, nelle dualità terra-cielo e anarchia-magia, ma anche ghiaccio/amore, con la evidente preferenza dell’autrice per il secondo termine delle coppie.
Il terzo testo è solo apparentemente oscuro, in realtà colmo di significato: il poeta (occidentale) non è più colui che apre visioni di salvezza, in quanto la sua umanità inesorabilmente scompare di fronte all’uomo africano che è stato dimesso, dove l’assonanza con il termine dismesso configura tutta la vergogna della non-solidarietà, tutto il fallimento del fratello verso il fratello.
È questa sensazione di buio che impregna le pagine di questo libro, facendo di ogni testo una sorta di amaro testamento lanciato verso l’insignificanza dell’intero universo: vogliamo certezze riguardo l’universo /solo questo ci manca.
Scene sempre attuali, dal Mediterraneo divenuto tomba di tanti migranti alle tante regioni dove risuonano i tamburi di guerra, per cui tra bene e male non c’è più /differenza, ripropongono la filosofica visione della distanza -ormai consolidata- tra bene e male, e l’originale pensiero che solo la nostra fine potrà essere rivoluzionaria, per far posto ad un altro mondo migliore.
Ci troviamo dunque di fronte ad un grado massimo di sensibilità, per cui –quasi in una profezia- la poetessa rivela che da sempre aveva avvertito il sapore della perdita, e perfino l’amore è sentito come qualcosa di larvato, che solo investe per lampi.
Ci è noto come Eliza Macadan sia poeta perfettamente bilingue, come mirabilmente domini la lingua italiana, la versificazione, il ritmo. E fondamentale è il suo dilemma-pure ironico- sulla scelta della lingua del poiein, con l’inaspettata rivelazione di voler trovare null’altro che il silenzio, al di là della lingua scelta. E questa asserzione di essere sul margine muto della scrittura è riflessione potente, che fa tremare i polsi a chiunque scriva poesia, riconoscendo quel bivio incerto della scrittura, laddove occorre cogliere il significato del silenzio in tutte le lingue del mondo, che è il fuoco della umana essenza, quell’incontro vero, limpido, multiculturale ancora così lontano.
Il silenzio- ricordiamo- con la tragica difficoltà di comunicare, era il tema centrale del suo grande conterraneo Celan nella raccolta Di soglia in soglia.
Ma Eliza Macadan cerca, anche inconsapevolmente, possibili vie di salvezza. Il suo subsconscio le riflette interni ed esterni del suo quotidiano, rivelandosi in sogno. Le scene sono di accondiscendenza al nuovo farsi dell’arte, come la musica rap, o ad un vivere in leggerezza, se la sensazione di volare le fa ripercorrere la vita come fuori dal tempo.
Il ritorno al dolore che attanaglia lungo marciapiedi che lacrimano, perfino nella stanchezza degli animali domestici, appare un’assenza quasi irreversibile della speranza, avvertibile solo per scintille, ai margini della globale foresta.
Un canto che confermo essere civile e dispiegato nella 2^ sezione dal titolo esattamente altrove con una limpida denuncia degli errori delle cancellerie dell’est, mentre la vita prosegue come un’eterna odissea destinata a rinnovarsi e a infrangersi senza tregua.
L’originalità della poetica di Macadan è nel non fare del suo canto una serie di scenari scuri, bensì nel vitalizzare il pensiero con immersioni nella storia e nel mito, esplicitando il desiderio di voler essere donna che attraversa i secoli e che nel futuro.- spiazzante profezia – sarà un essere sessualmente indistinto, ma di sicuro eticamente più illuminato.
E la forma di verso libero che Macadan adotta con grande padronanza, è punteggiata di lessemi collegati alla sua visione di generale disfatta, come specchi spaccati, m’annega, neve, nevata. Una forma duttile, che prende anche la via del macroverso quasi prosastico, nella poesia Lettera da Bucarest, racconto della situazione di estrema povertà di molti quartieri della città, per poi tornare all’andamento ritmico di Nina in cenere, vicenda straziante della prostituta che ha diritto di vivere solo da morta.
Allora forse per Eliza Macadan la salvezza è solo nell’amore, in quel poterti trovare per tornare sempre a casa (pag.50), nel tenere accesa un’infantile voglia di vivere (pag.53) che impedisce di cadere in pezzi per le scale (pag.57).
Di forte icasticità è la fiducia espressa nella scrittura, ultimo punto sicuro sul foglio bianco per cui la polvere salta dagli scaffali/ esattamente così è l’eternità.
Le crediamo con forza, come scommettiamo che i passi passati della 3^ sezione, con quell’ipnotico andamento anaforico lungo le pagine, lasceranno il posto al bene che s’impara e ai vinti e vincitori mescolati.
Annamaria Ferramosca