Falsa partenza (Ladolfi, Borgomanero 2014) è il titolo della raccolta poetica esordiale di Guido Mattia Gallerani (nato nel 1984), annodata percettibilmente ad una parola sovrana che si eleva dalla superficie per seguire una direzione precisa: è la recherche proustiana che ne delimita il raggio d’azione, specie nella prima parte, ma anche una coscienza che proietta ombre, segni a volte incomprensibili dell’accadere umano nell’inquieto movimento di uomini e donne. In questa seconda accezione il verso assume il tono esistenziale di chi sa che in fondo l’altro ci è estraneo, ci sfugge. Andrea Gibellini, in una nota, riferisce di “un luogo potenziale” dove si intessono meraviglie e sconfitte, antinomie compatibili, evidentemente, per esplorare percezione e immaginazione che sono i punti salienti sui quali gira il verso. Una poesia che annuncia corpi e anime, identità e spettri: “D’inverno quando la neve / eguaglia le cose / qui una talpa sbuca a tradimento. / Una traccia di fantasma forse / camuffata in mezzo al bianco”. Eppure Gallerani aderisce alla vita, anche in una dimensione che sembra decisamente in contrasto con le tendenze della poesia italiana delle ultime generazioni, frastagliate, dispersive, che virano verso i labirinti gergali e una costruzione di metodi per lo più sperimentali. Qui non figura un processo astraente, anzi emergono aspetti di comunione con un mondo arcaico, perduto ma concreto, come in uno dei testi d’apertura, tra i più belli: “La casa in mezzo al bosco / preda dell’emorragia del muschio / dopo aver avuto molti possessori / e le unghie scarnificate dalle mura / è ormai fuori dal mucchio / incline allo scivolo sul monte, lontana da tutto”. L’esperienza è vissuta in una sorta di incanto, di fermo-immagine che mette in risalto il dittico spazio-tempo e una nobile civiltà forse confinata nelle campagne modenesi del pre-Appennino, o il mondo naturalistico, da sottobosco, dei tassi, dei castori, dei procioni.
Una poesia, tra le altre, colpisce nella sua precisione e nella bellezza stupefatta tra segno e sogno, emblema perfetto dell’infanzia, della perdita, dello smarrimento che dalla crescita conduce frettolosamente all’età adulta. In particolare l’ultima parte, struggente, si qualifica come alta nell’evocazione, nell’ipersensibilità recondita: “E la palla… / incastonata sul mobile / non è già più tua. / E’ sogno di un altro / puer che la batte al vento: / fuoricampo la tua mano / che pur l’afferra dall’umido / del legno che ormai la tarla / non può più oltretempo / contro quella del destino / che ti parla, agguantarla”. Non manca una sezione ironica dal titolo “Annunci da riviste letterarie” che trasuda umore sulla falsità di modelli stereotipati, di una società consumistica che della poesia ne fa addirittura una merce di scambio: “Collaudata azienda di modelle / recluta aspiranti poetesse / minimo Nuovi Argomenti / per ruolo badanti…”. Ma questa parentesi è anche un atto d’accusa alla disattenta e sfatta realtà letteraria italiana nella sua veste ufficiale. Vale a dire un altro modello recalcitrante, ipocrita, pronto ad osannare con eccessi e a diffidare con altrettanta superbia. Guido Mattia Gallerani torna, infine, all’elemento descrittivo ed emozionale, riassorbito dalla vista, dalla distensione, dalla presenza di elementi rarefatti, come registrasse oggetti che si formano nella sua mente prima ancora che nel deposito dell’occhio. La risonanza è un tutt’uno con il richiamo vitale e con una caducità nascosta in qualche cima tondeggiante e nel declivio dei versanti emiliani.
Alessandro Moscè