È l’amore per la propria terra ad aver indotto Umberto Piersanti e Andrea Lepretti a scrivere il libro Semai vedi quel paese (ed. I quaderni di Atena, affinità elettive Ancona 2024), che ci conduce per mano a conoscere un’appartata e splendida regione divisa tra gli Appennini e il mare.
Il titolo rimanda al quinto canto del Purgatorio, là dove Dante incontra Jacopo del Cassero, che gli dà una definizione delle Marche ancor oggi attuale: “…se mai vedi quel paese/ che siede tra Romagna e quel di Carlo, che tu mi sie di tuoi prieghi cortese/in Fano, sì che me s’adori”.
Questo agile e raffinato libro si suddivide in due parti: la prima è un saggio, in undici brevi capitoletti, scritto da Piersanti, con la consueta forza e vivacità espressiva, la seconda, affidata alla penna di Andrea Lepretti, è costituita da concisi racconti, che all’unisono vengono a formare un diario di formazione.
Le fil rouge che unisce questi due autori è il forte legame per la loro terra, dove natura e arte si fondono in un unico paesaggio, che assurge a patria poetica. E questo avviene quando si investe un luogo di uno sguardo universale; scrive Piersanti: “Le nevi d’una volta / sulle Cesane / i volti d’una volta / sulle Cesane / le vicende d’una volta / sulle Cesane, / l’acqua del fosso forse / si è oscurata, / magari i ciclamini / dove hai sfiorato / la biscia che lì sotto / sta nascosta”.
Il saggio piersantiano ci offre uno sguardo appassionato non soltanto di Urbino e delle Cesane, luoghi legati alla sua vicenda umana e professionale, ma dell’intera regione, dove “tutto sembra essere fatto a posta per conciliare l’uomo con la natura”. E lo sguardo dell’autore non è quello soltanto del poeta, ma anche dello storico e del critico d’arte.
Non sempre alle Marche è stata riconosciuta una propria identità, indicata invece da Carlo Bo, nel fatto che la regione sarebbe rimasta separata dal resto del nostro Paese, per non essere stata toccata dai gravi capovolgimenti della storia. Il poeta urbinate, dopo aver citato alcune delle fondamentali battaglie, avvenute sul suolo marchigiano, sostiene, al contrario, che più di separazione, si debba parlare di lateralità, ricordando che Urbino è stata una vera e propria capitale del Rinascimento.
Le colline sono l’espressione più coinvolgente delle Marche. Colli che si susseguono più aspri ed alteri al nord, più dolci e levigati al centro-sud. Piersanti ha sempre scritto della bellezza naturalistica e artistica della sua terra e della necessità di conservarla e di ricostruire i luoghi danneggiati dal terremoto, perché ogni borgo, ogni pieve sono posti incantati, dove natura e arte si fondono mirabilmente.
Molti sono gli artisti, menzionati dal poeta, che hanno ornato chiese e palazzi marchigiani, tra questi: Piero della Francesca, Giovanni Santi, Giovanni Andrea De Magistris, Federico Barrocci e naturalmente Raffaello, che, nato ad Urbino nel suo splendore rinascimentale, conserverà sempre nel cuore e nei suoi quadri la luce e la gioia dei luoghi e delle vedute della sua infanzia.
Il paesaggio di questa regione, oltre che per le bellezze naturali, le linee architettoniche della scuola di Urbino e come espressione di buon governo, subì una sorta di idealizzazione, divenendo un parerga per diversi pittori provenienti da diverse regioni: Giovanni Bellini, Vittorio Carpaccio, Palma il Giovane e molti altri. Pochi anni prima della fine del ducato, Francesco Menguzzi nel 1626 ne illustrò in un codice tutte le ville e i borghi.
Raffaello e Giacomo Leopardi sono gli artisti, ci ricorda Piersanti, che non rispondono alla “compostezza” e alla “misura” di cui hanno parlato Piovene e Carlo Bo, quali caratteristiche peculiari del paesaggio e dell’arte, perché in loro questi aspetti vengono ad assumere una valenza assoluta, quasi smisurata.
Riprendendo il discorso sul giovane favoloso di Recanati scrive il nostro autore: “La collina, rimane il luogo centrale, quello da cui parte lo sguardo in ogni direzione. Il poeta che abita la collina trova sempre davanti un qualche dosso, o albero, o siepe, mentre chi dimora nella piana o sta presso il mare ha dinnanzi una distesa infinita.”
Ed è proprio quel solitario colle e quella siepe a evocare in Giacomo Leopardi l’Infinito. Quasi un ossimoro tra realtà e immaginazione, il poeta nello Zibaldone ci dice che l’anima talvolta desidera una veduta ristretta, perché quando viene meno l’ampio respiro di un panorama, lavora l’immaginazione e il fantastico si sostituisce al reale. Da diversi critici si è parlato di una forma di misticismo cristiano, o mussulmano, Umberto Piersanti, al contrario, riconosce nei versi leopardiani soltanto una disposizione classica, perché la sacralità è insita nel cosmo stesso. Una sacralità che lui stesso prova quando si perde nella straordinaria natura delle Cesane: “era al mattino, /al dislagare della luce/ l’infinita tenerezza delle piante/ la gioia incontenibile dei boschi”.
Spesso viene ricordato in questo saggio Paolo Volponi, che ha lasciato pagine indimenticabili delle sue Marche.
Come si è accennato, all’inizio la seconda parte del libro è un insieme quasi di flash narrativi, che all’unisono vengono a costituire un racconto di formazione. In parte autobiografico, il racconto tocca le varie fasi della vita di Andrea, romagnolo di Morciano, da quando ragazzino, assieme agli amici, saliva sul Monte Carpegna, a quando, dopo l’università a Bologna, sceglierà, nonostante il desiderio di conoscere il vasto mondo, di vivere tra le macchie e le rocce del Montefeltro, seguendo le ragioni del suo cuore. Si avverte nelle pagine una compenetrazione totale del suo spirito con i paesaggi talvolta aspri e aristocratici di questa storica terra.
Particolarmente suggestiva è la narrazione della visita, assieme a Enrico, l’amico conosciuto in Bologna negli anni universitari, a Marradi, luogo natale di Dino Campana: una cittadina che non ha nulla di particolare per ispirare importanti imprese, eppure fu da lì che il poeta partì per prendere il piroscafo che lo condusse a Montevideo. Ma fece anche viaggi più brevi come il cammino per Falterona e la Verna paragonabile, nota l’autore, al cammino di un eroe antico o di un pellegrino, perché tra i paesi ci sono distanze immense come quelle che il poeta ha attraversato nell’oceano.
Il giorno stesso in cui i due amici andarono a Marradi decisero, sollecitati dalle vicende del poeta, di attraversare a piedi, come gli antichi viandanti, l’Apennino guardando “gli alberi, le case, le rupi”. Sarà quell’esperienza così intensa e assoluta a legare per sempre il nostro autore ad una natura aspra e selvatica.
Sceglierà, quindi, in seguito, di vivere tra i monti e le radure del Montefeltro, svolgendo l’attività di coordinatore in una struttura sanitaria per la cura di pazienti psichiatrici, che si sono macchiati di gravi delitti.
Non mancano nelle pagine momenti di intensa liricità che, talvolta, riportano, per la luminosa plasticità espressiva, alle poesie di Umberto Piersanti, cantore delle Cesane, le sue georgiche personali. Richiamo questo ad una sostanziale, comune ricerca di entrambi gli scrittori, volta a un mondo ancestrale, in parte perduto, di bellezza e d’armonia, in simbiosi con la natura.
Raffaella Bettiol