Ripensando all’ultima fatica poetica di Umberto Piersanti, “Campi di ostinato amore”, recente vincitrice della prima edizione del Premio Umberto Saba, l’attenzione non può che concentrarsi sul titolo che offre immediatamente un’indicazione precisa di temi e contenuti.
Va da sé che la parola “campo”, qui declinata al plurale, richiama subito alla memoria immagini di vita campestre, lasciando intuire un modo di rapportarsi alla natura di tipo “bucolico”. Non possiamo del resto negare che la Natura costituisca uno dei motivi dominanti della silloge, insieme al discorso legato alla memoria (individuale e anche storica), eppure -come si vedrà – l’approccio al paesaggio naturale nella poesia di Piersanti risulta essere decisamente più complesso. Mi è tuttavia capitato di pensare agli altri significati che quel vocabolo sottintende, ovverosia, più genericamente, di spazio libero contenuto entro certi limiti, ma anche, in altre accezioni, di “campo di battaglia” o “accampamento”, o “campo semantico” ma soprattutto -ed è l’idea forse un po’ forzata ma che più mi affascina- di campo quale entità che esprime una grandezza come funzione nello spazio e nel tempo.
E mi piace partire da questa definizione, utilizzata nella fisica tradizionale, in quanto è quella in grado di dare spessore e profondità al concetto di “ostinato amore”, esaltandone in qualche modo la forza e garantendone lo status di principio o regola “universale” applicabile alla realtà spazio-temporale eppure in qualche modo trascendente la stessa realtà fenomenica. Quell’amore, inteso come attaccamento tenace alla propria terra, che mai come in questo libro significa attaccamento alle proprie radici, che definiscono l’identità attraverso le generazioni e attraverso i luoghi, richiamati a rivivere nella realtà del ricordo, dove gli spazi coesistono in una dimensione priva di tempo e si rincorrono, coincidono, si richiamano gli uni con gli altri distillando una poetica di grande forza emotiva, sacra e mitica.
Il processo di mitizzazione dei luoghi raccontati comincia fin da subito nella prima sezione “Il passato è una terra remota”, dove il recupero dei paesaggi, precisi e nominati, e di alcune figure ricorrenti (la madre, il padre, le sorelle, il cugino, ecc.) vengono filtrati attraverso gli occhi innocenti di un fanciullo che subisce il fascino della natura (fatta di pinete, greppi, radure, macchie, ecc. ) e che si trova a rielaborare vicende troppo grandi -quelle corrispondenti agli anni della seconda Guerra mondiale- e quindi a registrare le ferite che un conflitto bellico reca inevitabilmente con sé. Con un simile contesto storico a fare da sfondo, non ci si stupisce dunque quando si incontrano versi dal forte impatto come quelli che recitano: “dalla marina salgono/i signori del ferro/ e del fuoco/ con gli elmi calati” dinanzi ai quali si ergono, come un baluardo a protezione dell’infanzia, i successivi versi “tu fuori della Storia/ nell’abbraccio del padre/solo e felice” (p.16). E ancora, sulla medesima lunghezza d’onda, leggiamo “venne la notte/ coi vetri oscurati, / non debbono vederci/ su dal cielo/ chi la morte/sgancia sulle case” a cui seguono, a controbilanciare, le parole “t’hanno accolto nel mezzo/ padre e madre/ tu dormi/ e più non senti/ il fischio nero” (p.20). Le stesse luci e le stesse ombre ha anche la natura, in una corrispondenza che non risparmia uomini e animali, una compenetrazione assoluta perché, nonostante l’uomo cerchi di costruire una realtà artificialmente separata, ogni volta la sua vita viene ridotta ad accidente naturale, di fronte a fenomeni più grandi di lui, di fronte al morire e al rigenerarsi della vita, bellezza e dannazione delle sorti umane.
La sofferenza si fa allora personale nelle poesie della seconda sezione, “Jacopo”, dedicate al figlio colpito da una grave malattia, dove emergono quelle ombre in cui è possibile vedere “il falco in volo/ con la serpe/ trafitta nella gola/dai curvi artigli, /l’estremo pigolio/ dell’uccelletto/ che la biscia verdastra/afferra e ingoia (p.73): una natura che pare insensibile al male che si consuma, così chiusa nella sua indifferenza. E questa volta il male, nella corrispondenza con le vicende umane, non è più quello percepito da un fanciullo bensì da un uomo consapevole che si trova di fronte alla fragilità dell’amato figlio. E, quindi anche il male individuale, il dolore e la sofferenza umani, così come emergono nel dramma familiare, vengono rapportati all’ambiente naturale, in un confronto che accosta piani e sequenze di stature differenti, quella umana e quella paesaggistica, con dinamiche non sempre rassicuranti. Così nel trittico di poesie, ecco l’artiglio, l’ombra che pare incupire ogni cosa e quella sorta di battesimo nell’amore ostinato che accompagna nella discesa (“nei greppi folti abbiamo colto more/tra gli spini”) sino alla chiusura nelle stanze, reali o metaforiche (“ora tu stai rinchiuso/nelle stanze/” e il mio ginocchio che si piega/ e cede/ a quei campi amati/ d’un amore ostinato, /sbarra l’entrata”) e all’attesa paziente di rinascita dei favagelli (“aspetto i favagelli/ del febbraio, /tiepidi contro il gelo/ sbucare fuori”, pp. 73-74).
Se il titolo “Campi d’ostinato amore” è mutuato dalla prima poesia del trittico dedicato a Jacopo, il processo che si è giustamente definito di “mitizzazione” del paesaggio naturale viene portato a pieno compimento nella terza sezione del libro, non a caso intitolata “In una selva separata”. In quest’ottica dobbiamo leggere i versi iniziali “no, non in una foresta di simboli/questa casa/ che non sai dove sia/ma fuori, fuori/da ogni plaga della memoria/ anche la più remota, da ogni storia e vicenda,/ma vera, vera”, (p.81) come a chiarire che, a partire dalla memoria ma da questa separandosi, pare sedimentarsi nella coscienza il racconto che esorcizza il male e il dolore con la costruzione di una natura apparentemente remota, capace con la sua placida eternità di “ridimensionare” le ferite esistenziali.
La presenza dell’Uomo (e dell’ombra) pur non annullata, è tuttavia spesso soggiogata dalle luci, dalla grazia -quasi materna- del paesaggio. A riprova di quanto detto possiamo portare la testimonianza di alcuni fra gli innumerevoli versi: “qui le erbe sono le più verdi/ e alte,/ ondulate e morbide/dai colli scendono/ alle case//il cerbiatto è lì, poco distante,/ dove l’acqua è più limpida,/ alla fonte,/e tu lo guardi bere/ e sei felice” (p.81); oppure “dormono i miei pastori/ presso il fuoco,/ stesi nel muschio/ che la fiamma non scalda,/ sognano acque chiare/ limpidi prati” (pp.84-85); o ancora “com’era fresca l’acqua/ in quell’aprile,/ l’acqua del fosso/ che odora di verde,/ verde muschio/ e raganella” (p.86); e infine “la selva è in una terra/separata,/non sai cosa la cinge/ e la protegge,/ risplende il ciclamino/ per l’eterno, / quel fanciullo per sempre/ lì cammina” (p.91). Eppure i luoghi, cosi trasfigurati, sono sempre gli stessi: il Fontanino, le Cesane, lo Spineto, Camorciano, le selve, i greppi, i pascoli che nella sezione “Vicende” fanno da sfondo alle voci che si incrociano nel ricordo, con le leggende, le testimonianze recuperate dalla memoria come attimi eternizzati, continuamente rivissuti “quante volte/ sdraiato sul falasco/hai visto la poiana/alzarsi in volo,/ la biscia scivolare/tra sassi bianchi,/scendere la palombe/alla marina” (pp.113-114) e “lente galline/ nel campo/un po’ in discesa/e la casa/ che tu sai dissolta,/ nella nebbia degli anni/ fluttua remota e pallida,/ ma resta” (p.118).
E così, dalla sezione “L’età breve” scorrendo fra presente e passato, ombre e luci, figure femminili quasi leggendarie (come “la forestiera,/ dritta e stagliata/ sulle torri d’Urbino/e la pineta”, p.135; oppure “l’amica/ la più alta e possente, il seno forte”, p.141) e vicende dell’età del maggior vigore fisico, appunto l’età breve (“c’è stato un tempo/ in cui ci credemmo/ immortali,/ alti sull’Appennino/ventoso”, p.146) arriviamo all’epilogo, il capitolo conclusivo di “Primavera bugiarda (nei mesi del Covid)”, con un altro trittico che pare idealmente richiamare il precedente, e che ci proietta nella più aderente attualità. Qui la natura, incurante degli umani affanni, rifiorisce con una sorta di tradimento “questa primavera/ fuori stagione, / primavera bugiarda/ che gli umani serra/ dietro sbarrate porte” (p.156) e poi “solo una beffa/questo cielo azzurro/ il vento lieve/il sole che tiepido riscalda” (p.157). Le stesse Cesane parlano di una cosa nuova, una prigionia che divide, un sortilegio di cui “si attende la fine”, ovverosia il tempo in cui poter “guardare un’erba/ o un fiore/ senza il male nascosto/ dentro i colori” (p.199). Perché l’amore ostinato è quello sempre a sé stesso fedele, ai luoghi e alle persone, all’ambivalenza di un mondo che con totale indifferenza ci dà e ci toglie.
Alessio Vailati