Recensione di Alogenuri d’argento
La terza raccolta di Marina Baldoni spicca per il modo particolare con cui dà forma lirica a un tema difficile da interpretare con una chiave estetica originale: il conflitto emotivo. Invece di scantonare o riparare in moduli precostituiti, con i suoi Alogenuri d’argento (Arcipelago Itaca, postfazione di Umberto Piersanti, pp. 72, € 13) Marina Baldoni pone la questione al centro – a fuoco si sarebbe tentati di dire – a soggetto profondo di una scrittura che trasporta il lettore negli interstizi di un dramma esistenziale, dentro un intreccio intimo ed essenziale in cui prevalgono le tinte scure e le superfici ruvide delle parole, dando luce così a una poesia al contempo interrogativa e in sviluppo.
La fonte di questa attitudine è svelata direttamente dall’autrice con la citazione di alcuni versi di Villalta in una epigrafe dalla natura metapoetica: ma se la scissione tra scrittore e vivente ha lunga tradizione, Baldoni dimostra il merito di non esaurire il suo caso negli alveoli minori, seppure calligrafici, di una poetica già solida, bensì di prendere questa quale abbrivio per sondare una ulteriore praticabilità e biforcazione. In risposta alla citazione d’apertura, la raccolta prende le mosse ponendosi immediatamente dalla parte della scrittura:
un’immagine del tutto disonesta
luce attinica e alogenuri d’argento
ma quando sarà tutto quel che resta
qui, guarderanno e non vedrà nessuno
realmente quanto gioco e quanto vero
in quelle linee sparse c’è di te
per prima, lì, in tutta quella vita
a chiederti in che cosa sconfinavi
Le condizioni della poesia sono dunque definite dalla posizione di posteriorità e dalla costituzione del diaframma: se la prima impone una direzione temporale retrospettiva, è nella struttura della seconda, nella triangolazione immagine luce alogenuri, che si apre lo spazio operativo della versificazione, le dimensioni in cui Baldoni traccia le diverse possibilità a disposizione del suo stilo per la realizzazione dell’argomento. A proposito di questo, giustamente Piersanti indica nella postfazione come «la vicenda narrata» sia «una vicenda strettamente e tenacemente esistenziale», una «tragedia» in cui «c’è sempre un’aria inquieta, un colore nero, un senso di dolore»: la materia della raccolta impone il riferimento a una storia, o meglio l’esistenza di un dramma, come sembrerebbe preludere l’omaggio a un modello stilnovistico rinnovato dal riferimento alla cronaca anziché ad astrologiche congiunture:
con qualche anno di ritardo
hai avuto il tuo undici settembre
un collasso tutto personale
è stato il giorno tredici del mese
ore sedici e un pugno di minuti
/di venerdì, duemila e diciannove/
forse anche prima a pensarci bene
Se non che la sensazione drammatica rimane tale, preferendo l’autrice una strada divergente, reticente, allusiva: degli eventi e dei gesti che comporrebbero la narrazione e i suoi tempi, violando le attese più comuni, pochi residui si salvano alla negazione della ribalta; «una volta c’era una magnolia / in petto e in uno spazio tra i balconi, / fiori rossi a mille» prosegue il brano di cui sopra subito dopo lo stacco strofico, come se in quelle vicende non potesse continuare oltre questa soglia. Sbarrato l’accesso al fieri dell’azione, la luce si rivolge altrove, posandosi su dettagli oggettivi che solo attraverso la lente d’ingrandimento della memoria poetica mostrano le trame del vissuto che vi hanno trovato appiglio; sui punti da cui l’autrice traccia le mappe dei sentimenti che contornano il vuoto creato dalla forclusione della narrazione:
ho una bolla d’aria /dentro/
e di sale che mi duole
la sua viandanza segna puntuale
il mio corpo in cerca di un varco
o di un abisso
tracciando mappe per la
/forse/
mia salvezza
Non simboli, ma veri e propri oggetti parlanti sono allora i diversi elementi che i versi prendono quale punto di partenza o di transito, non diversamente da come fungono per il navigante le stelle «fisse» che Baldoni nomina (stelle ac.cadenti): una dettagliatissima e selezionatissima scenografia di piante («le foglie affilate della yucca» in necessario), concetti matematici e fisici (limiti e wormhole, 1916) quadri (annunciazione, saltimbanchi, salgado) e perfino di indumenti (oyster white crêpes satin) compongono sul palco di questo kammerspiel mancato una galleria sincronica disposta alla significazione e al ritorno del reale grazie ai sali fotosensibili di cui è cosparsa.
Escluse dall’inquadratura dell’immagine le figure integrali degli attanti in favore di qualche loro lacerto corporeo e grammaticale, oppure qualche barbaglio di semplice gesto, protagonista della scena rimane la voce che, accogliendo l’istanza dei ruoli necessaria per il conflitto, si sdoppia tra tenerezza e ira, delicatezza e crudeltà, sconforto e ironia. È la voce della Baldoni, coi suoi diversi toni e gamme di colore, con i mezzi grafici a disposizione, a indirizzare in modo sobrio e mai scoperto le fluttuazioni impressive, a circondare da una parte e l’altra della pagina ciò di cui essa è stata privata dal fuoco del pensiero (hygròn pýr, una vera gemma per leggerezza e audacia surrealista) e della dialettica tra le parti (salvezza): proprio in questa ultima, momento di rottura per sottrazione alla dinamica conflittuale, possiamo metonimicamente vedere la camera reale – il talamo – bruciare assieme a Itaca.
Ridotta in cenere quella, la camera teatrale dell’analisi intima e psicologica incontra, una volta senza attori, la camera fotografica evocata fin dal titolo attraverso poesie fotogramma capaci di riallacciare punti temporali che la storia distanzia: non istantanee dunque – e se del languore si presenta, questo sorge dall’intimo delle allusioni cui il lettore partecipa più che per la carica espressiva improntata nella rappresentazione, sempre distaccata e rivolta alle sfumature più sottili, salva da facili accoramenti.
Costantino Turchi