Alessandro Moscè con Alberto Bevilacqua. Materna parola (Il Rio Edizioni 2020) ha ricostruito cronologicamente le svolte più rilevanti dell’uomo, del poeta, del narratore e del regista cinematografico, così da inquadrare l’ologramma di una delle figure letterarie più feconde del secondo Novecento italiano e dei primi dieci anni del Duemila. Nel reportage, prima ancora dei successi internazionali con i romanzi La Califfa (1964) e Questa specie d’amore (1966), che segnarono l’abbrivio di una notorietà sempre crescente, è evidenziato come Alberto Bevilacqua avesse già raggiunto traguardi notevoli che molti non ricordano. La Califfa e Questa specie d’amore, peraltro, divennero dei film con attori del calibro di Ugo Tognazzi, Romy Schneider e Jean Seberg in due versioni magistrali.
Bevilacqua nacque a Parma il 27 giugno 1934 da Mario (un aviatore dell’aeronautica militare) e Giuseppina Cantadori. Crebbe nel quartiere dell’Oltretorrente, quello della madre, il più povero di Parma, ma terra di geni come Toscanini e Verdi, di attori, ambulanti, cantori fatti venire a corte da Maria Luigia d’Austria, la seconda moglie di Napoleone. Nel Cinquecento vi soggiornò Francesco Mazzola detto Parmigianino, prima di abbandonare la pittura per l’alchimia. La nonna materna, Amelia Bacchini, di origine spagnola, era arrivata a Parma per fare la ballerina al Teatro Regio. Alberto Bevilacqua studiò al Liceo Romagnosi e nell’università cittadina conseguì la laurea in Giurisprudenza. Al liceo, suo compagno fu il futuro editore Franco Maria Ricci. Attilio Bertolucci era l’insegnante di Storia dell’Arte e per primo lesse i suoi versi. Le poesie vennero pubblicate sul “Raccoglitore”, la pagina culturale della “Gazzetta di Parma”, in cui il giovane Bevilacqua divenne redattore con Mario Colombi Guidotti e Francesco Squarcia. La vita culturale di Parma era ricca, con la presenza, tra gli altri, di Pietrino Bianchi, scrittore e critico cinematografico.
Nel 1958 Bevilacqua pubblicò dei brani narrativi su “Paragone”, dove scrivevano anche Testori, Orelli e Mastrocinque (si trattava di gustosi ritratti in miniatura), e su “Botteghe Oscure” tramite l’intercessione dello stesso Bertolucci, che incontrava nella sua casa di Baccanelli, in campagna, oppure in piazza o ai tram dove lo accompagnava. Nel 1957 Bevilacqua iniziò la collaborazione con “La Fiera Letteraria” diretta da Vincenzo Cardarelli, che durò fino al 1976. Dedicò dei ritratti a Caproni, Squarcia, Fenoglio, Patti, Delfini, D’Arzo. La mattina lavorava nell’ufficio di stampa della casa di produzione cinematografica di De Laurentiis, dove dopo qualche tempo intraprese l’attività di soggettista. Nel 1960 entrò al “Messaggero” e vi rimase fino al 1966 occupandosi di cronaca nera. Nello stesso anno passò al “Corriere della Sera”.
Alessandro Moscè è abile nel ricordare non solo le opere famose, ma anche la prestigiosa formazione di Alberto Bevilacqua: lo apprezzarono e ne scrissero Sciascia, Borges, Ionesco, Quasimodo, Montanelli, Caproni, Pasolini, Volponi, Pedullà, Testori ecc. Parma e Roma, per Bevilacqua, rappresentavano dei cerchi concentrici. Amava e ritrovava il suo Po, Colorno, Sabbioneta, spesso allontanandosene, come la Roma storica e sotterranea, con i suoi grandi personaggi dei quali ha sigillato il carattere in Roma Califfa (2012) e nei numerosissimi articoli di giornale. Parma era una sorta di Itaca all’incontrario: Bevilacqua aveva bisogno di prendere spazialmente le distanze dall’Emilia, di sedimentare i ricordi, di rielaborarli con lucidità e con la volontà di sentirne anche fisicamente il distacco, incrociando la nostalgia dell’infanzia e dell’adolescenza padana. Ha estratto dei reperti, frammenti come fossero parte di una leggenda greca. È stato questo il viatico per l’incanto prediletto negli ambienti tornati puntualmente al centro della scena poetica, narrativa e cinematografica.
Il ritratto di Moscè fa capire come Alberto Bevilacqua sia stato il controcanto all’ideologia uomo/storia, perché venisse privilegiato il singolo, una dimensione privata e intimista. Da questo punto di vista può essere considerato un anti-novecentesco nel percorso d’amore fra le creature che hanno disegnato il suo desino (in particolare l’amatissima madre). Tra un addio e un risveglio, la storia, in definitiva, appare come una sorta di sdegno, la condizione comune delle colpe e dei rancori, la tragicità nei ritmi sincopati di un’epica scomposta. Si fa riferimento più volte alle lotte civili, in particolare nello splendido La polvere sull’erba (2000), la cui prova autoriale fu in parte pubblicata da Leonardo Sciascia nel 1955. Si pensi allo scontro in campo aperto, nel 1922, di Guido Picelli, il rivoltoso che respinse le squadre fasciste. La vigoria dell’animatore della sommossa contro le milizie nere, rimane tra le pagine più belle di Bevilacqua, che ne scrisse anche in Una città in amore (1970). Moscè restituisce a Bevilacqua una centralità netta nella letteratura italiana spesso intransitiva, tormentata da sperimentalismi d’avanguardia e da un’eredità simbolista. Moscè segue la cantica di Bevilacqua e ne è inseguito. La sua voce fuori campo condivide versi e brani, la sinopia dei libri, le motivazioni e le giustificazioni. Questa biografia autorizzata dalla famiglia è anche un ottimo saggio, un racconto sul racconto, il riconoscimento affettivo per uno scrittore scomodo in quanto amatissimo dal pubblico nella sua parmigianità cosmopolita.
Michela Zanarella