Recensione di Vittorio Cozzoli
Devo cominciare citando alcuni brani per affrontare il mio discorso intorno a “Le cose del mondo” di Paolo Ruffilli, edito nella prestigiosa collana dello Specchio Mondadori.
“Che stato di piacere / quello in cui da fermi / si segue con lo sguardo / qualcuno in movimento / più lontano.”
“La cosa fastidiosa / è che tutto accada / anche quando non ci siamo / o, presi intanto / dentro un’altra storia, / non ce ne accorgiamo.”
“Mi preme su / dall’orlo nero dell’assenza / e mi impedisce / di passare i suoi confini / mi spinge e stringe / nella morsa amplificata / non mi dà tregua / ma non mi stanca / la notte bianca.”
“Eccolo, il nome della cosa: / l’oggetto della mente / che è rimasto preso e imprigionato / appeso nei suoi stessi uncini / disteso in sogno, più e più inseguito / perduto dopo averlo conquistato / e giù disceso sciolto e ricomposto / rianimato dalla sua corrosa forma e / riprecipitato nell’imbuto dell’immaginato.”
“Non c’è parola che possa dire / per due persone di genere diverso / la stessa cosa al non reciproco sentire, / meno che mai se in relazione al corpo: / voce già impressa nominandola incarnata / mentre esce spinta fuori dal soffio della gola / e, incarnandola nel sogno, dal desiderio / intanto delirata in due disegni e modi / alieni per usi e per mestieri, per forma / e per sostanza, per DNA e per stile / tra gli stranieri opposti maschile e femminile.”
“Emerge su dal fondo, esonda la parola / lingua di fuoco a rompere il silenzio / e pronunciare netto al mondo / ciò che aspetta ancora nell’assenza, / ciò che fluttua nell’andare più indistinto / ancora lì senza la forma e i contorni / e che di colpo cessa di essere in procinto / e si fa vivo da incolore, si assume e circoscrive / dentro il magico reticolo del nome / come contenuto del suo contenitore.”
“Il nominare chiama e, sì, / chiamando ecco che avvicina / invita ciò che chiama a farsi essenza / convocandolo a sé nella presenza. / È la ragione che si fa linguaggio / volto a spiegare perfino il sentimento, / musica interiore che su da sotto sale / e consegnandosi all’urto materiale / delle precipitose scaglie ondivaghe sonore / parla del suo scontrarsi per domarla / con la resistenza delle cose.”
I passi citati – che di necessità si sono fatti segni/segnali di un percorso esistenziale e linguistico, e come tali tesi ad incontrarsi per fare di sé una cosa sola – sono il filo di Arianna che consentono a Ruffilli di affrontare, finalmente, la propria storia di uomo e di poeta. E questo non solo per questioni anagrafiche, ma per altre, meno esteriormente individuabili da parte di un lettore che legga poesia con la consueta attenzione e curiosità di lettore uso a praticare la letteratura. solo letteraria-mente. È bene dare corpo a questa premessa, così indicativa e nello stesso tempo ambigua o equivocabile, ma necessaria per intendere il tutto che risponde a Le cose del mondo.
Dunque, immaginiamo un uomo che rischi, litteraliter et allegorice, di annegare e che giunga in limine mortis ma che, inspiegabilmente esca da quel gorgo mortale e improvvisamente, inspiegabilmente venga restituito alla vita. E che sia da una parte costretto a guardarsi indietro e dall’altra a tornare a guardare davanti a sé. Che fare, se si tratti di un poeta, per esprimere tanta esperienza? Che fare per restituire il bene della vita restituita guadagnandone tanta coscienza, se non indicibile gratitudine? Come esprimere al corpo/mente il significato della ‘cosa’ che dà significato e valore alle ‘cose del mondo’? Come lasciare che l’altra parte di sé, la invisibile e la indicibile – chiamiamola anima/spirito – chieda di riunirsi al nodo ‘corpo/mente’ e faccia del tutto una cosa sola? E che valga non solo per la quotidianità del comune vivere, ma soprattutto per il compimento di sè come poeta? Cioè, come chi debba fare i conti non solo col corpo e con il linguaggio, ma con lo scopo di dare alla ragione una ragione che non sia solo meccanica nelle sue funzioni espressiva e relazionali? Da qui la ‘storia’ di ogni poeta, ma ora, in particolare quella della poesia di Ruffilli. Il quale, elaborando per circa un quarantennio questa “costruzione poematica”, intende giustamente sottolineare l’unità della propria ‘storia’, di cui il lettore sta iniziando a riconoscere, passo dopo passo, le tappe del percorso. E che il poeta ricostruisce con grafia altra, precedendo le sezioni della sua costruzione poematica. Tratta di una storia, la sua, che mostra i segni di una lenta conversione, di un venire-alla-luce: come accade in ogni parto, compreso quello della nascita definitiva di sé.
Ecco il filo d’Arianna per il lettore, che ci rinvia a quello di Dante quando esce dal buio dell’inferno, e, capovolgendosi, si mette in ascolto di un suono vivo che lo chiama al di là del precedente, inquieto ed inquietante io. Finalmente. Si rilegga l’ultima delle ’indicazioni’ per il lettore: “Il nominare chiama e, sì, / chiamando ecco che avvicina / invita ciò che chiama a farsi essenza, / convocandolo a sé nella presenza.” Essenza, presenza: non siamo più nel linguaggio della filosofia o della teologia, ma in quello ben concreto di una mistica, che qui consiste nel dono di aver finalmente capito della vita ciò che più importa. E che, perciò, accompagna con la speranza di essere compreso. Così, dopo tanto dolore causato dalla percezione della ‘assenza’ – segno dominante della Modernità – il riapparire della “presenza” come esperienza di ciò che rende vivo il vivente. Che la si chiami ”essenza” è un atto di coraggio testimoniale, di rinnovata fiducia nel “nominare”, come è dato al poeta con la sua poesia. Che ha fatto quotidiana esperienza dell’assenza (in attesa della presenza) dell’insensatezza (in attesa del senso e del significato), del vuoto (in attesa di ciò che dà pienezza alla patita miseria di una quotidianità solo subìta). E così via. Ma così giunge alla comprensione della “ragione che si fa linguaggio”: certo una ragione che non è solo ragione illuministicamente e riduttivamente intesa.
Se questa solo questo fosse, il Leopardi sarebbe un altro poeta, rispetto a quello da noi amato, uno che non avrebbe inteso le ragioni del cuore, anzi, che vorrebbe impedirle. Se questa solo questo fosse, Dante non avrebbe dato ben altra testimonianza alla ragione, figlia della mente: “Onde si puote omai vedere che è mente: che è quella fine e preziosissima parte de l’anima che è deitade” (Cv.III,vi). Non paia inopportuna qui questa citazione dantesca, proposta ora per adempiere al consueto gioco dell’investigazione delle fonti (Leopardi, Caproni, ecc. ecc.), ma unicamente per rimandare Ruffilli a Ruffilli, all’autenticità del suo vissuto e all’onestà della sua testimonianza. Sabiana, se riandiamo al dovere di ogni poeta: fare della ‘poesia onesta’: onesta, da parte del poeta, verso la verità della propria vita. Dunque, passo dopo passo, questa costruzione poematica va manifestandosi come un viaggio dalle “cose del mondo” alla verità della loro natura (‘de rerum natura’) ed all’investigabile, o ininvestigabile, loro perché. A partire dal perché della loro realtà, e in primis da quella dello stesso nostro corpo e dal suo modo di condizionare la stessa intelligenza. Il corpo va conosciuto, esplorato, capito per quanto può e per quanto non può dare (“l’interesse / spiccato più per il corpo che per la persona”). È a partire dal corpo che nascono non solo le nascite, ma le stesse conseguenze delle nascite: “Ma tu, papà, mi ami?”. Domande come questa mettono a nudo i limiti delle cose, se lasciate solo alla loro astratta cosità e al loro incessante porci quegli interrogativi cui la poesia cerca di rispondere poetica-mente. E non importa più di tanto se, in questo fare ‘la cosa chiamata poesia’, il registro sia prelirico o postlirico.
La poesia è ancor più in là e più a fondo delle modalità retoriche che vorrebbero continuare a governarla. Certe novità non intendono più essere contenute in otri vecchi, ma chiedono il coraggio di un rinnovamento. Come è questo, a suo modo coraggioso, del ritornare alla presenza ed alla essenza. O meglio, alla verifica della stessa realtà del vivere: se sia tutto un sogno, o, usciti dal sogno, emerga la scelta ultima della verità: il suo amore o il suo odio. E ciò vale per la vita e per la morte, soprattutto per la necessità del morire (“C’è che dovrò morire anch’io?”; “Quel che sento non sarà più mio?”). Da qui – ed è ancora Dante che ce lo ricorda –, giunti nella ‘selva’, la scelta ultima è tra cedere e lasciarsi morire oppure resistere e voler tornare a vivere. Ecco l’essere restituiti alla vita. Ma questo atto finale ha per ciascuno di noi, e per ogni poeta, tutta una sua segreta storia, vissuta tra “le cose del mondo”. E allora ecco, all’atto di partire, il “piacere” provato nell’uscire dal sogno: “da fermi, / si segue con lo sguardo / qualcuno in movimento / più lontano”. Ecco il gioco ora possibile: far apparire “qualcuno in movimento” a chi sia fermo nel luogo dell’arrivo e lo segua nel suo venire da lontano e nell’andare “più lontano”. Verso dove? Si leggano, poesia dopo poesia, i movimenti, le stazioni, i pensieri che ne nascono, il filo che le raccorda in una collana, divenuta, a suo modo, gioiello. Che può darsi solo a chi alla fine abbia compreso e vinto “la resistenza delle cose”: non le cose in sé ma la loro materialità non accompagnata dal loro significato, quello che il corpo solo esteriormente crede di comprendere. Resterebbe da dire almeno qualcosa sulla contemporaneità di questa poesia, non tanto per un giudizio di valore del suo essere bella o meno bella, ma su quello del suo manifestarsi e noi come contemporanea.
Sì, perché questo è un punto ben decisivo per dare maggiore o minore valore alla poesia che in questo drammatico tempo viene scritta. Il dramma, più che in quello del cambiamento climatico è quello del cambiamento della concezione della vita, degli scopi del vivere, dell’inutilità di una morale fondata non sull’utile, ma sulla verità ultima delle cose. E la poesia è misurata con questo metro, ineludibile, non più governato dalle ideologie o dalla retorica. Ruffilli va riletto anche in questa chiave. Certamente morale nella sua urgenza, a partire da quella delle relazioni familiari, tra le prime da richiamare quando pensiamo a ‘le cose del mondo’. Dunque, le relazioni familiari, i triangoli affettivi, mai equilateri. Ora il padre sta sulla base, ora senza accorgersi di come questo accada, si trova sul cateto. Commovente è nel libro l’affettuoso gioco delle parti. Avessimo ii coraggio di affermarlo apertamente, si tratta di un’epica familiare che in tanto disfacimento si fa incoraggiante e consolante. E il tutto scorre con un ductus narrativo mai enfatizzato ed indisponibile a scendere al prosastico o salire ad un più alto, e forse meno credibile, lirismo. In questo senso può stupire la normalità del senso che governa questa costruzione poematica. Certo, è solo qualcosa di quanto finora detto, ma è bene che ognuno dei suoi lettori legga, come è giusto, in proprio e ne ricavi, così come io ho fatto, un bene. Che non può, come tale, non essere anche bello. E non importa se l’hanno fatto uscire dall’orizzonte di senso. Riemergerà, piano piano riemergerà. Intanto ecco la grande ricerca, la ricerca di nuovo grande: il senso delle cose, la realtà della realtà, la coerenza tra la coscienza e il reale, le quotidiane resistenze, l’improvviso, momentaneo, intravvedere il senso stesso delle cose. Sì, questo e altro ci offre la quarantennale costruzione poematica di Ruffilli.