Come si racconta ciò che è accaduto all’uomo, al modo in cui ha coscienza di sé e del mondo, al senso del tempo ed alla cognizione dello spazio che sostanziano il suo esistere dopo che “ Il mare è davanti, / la collina senza prima né poi: / in mezzo siamo diventati ore e immagini.”? (Trasparenza, pag. 127) La poetessa Maria Borio in “Trasparenza” Novara 2018, Interlinea srl edizioni ci confida in versi che si articolano discorsivamente, ma mai pianamente, quanto suo pensiero e quanta sua vita hanno attraversato, a loro volta percorsi, sospesi e ripresi, la possente e formidabile irruzione di una nuova forma dell’Essere: il liminale, l’intersecato, il lontanissimo eppure sempre allo stesso tempo vicinissimo Digitale: l’(E)essere digitale. In “Trasparenza” la poetessa comincia col rinvenire le tracce, presaghe, dell’oscillazione tra figura e suo riflesso: è un primo, embrionale discostarsi della coscienza del sé da se stessa: si intravede l’aprirsi di uno spazio imprevisto, ma il tempo è lo stesso: il riflesso delle figure dei passeggeri sui vetri di un treno è simultaneo all’essere delle forme umane che lo generano sulla superficie trasparente; ma la Borio ci dice, che pur in un tempo comune, il riflesso è sagoma altra rispetto alla persona, sembra quasi dotato di una propria soggettività che pensa se stessa: “scrivi e sai / che il vetro non riflette la persona / che muove la mano e pensa nel suo / a un altro profilo.” (Come ci siamo abitati, pag.14).
Si procede così, in questa silloge poetica: piccoli scarti, divaricazioni si aprono progressivamente: si giungerà all’Essere digitale, ma i cretti, le crepe, gli smottamenti si producono lungo un processo, che passa anche per immagini dalla geometria visionaria, perché il Digitale non è casuale, indistinta mescolanza: non è questo logoro stereotipo, peraltro con una connotazione moralistica, che ha tanto impegnato pensiero ed emozione della Borio. Si rifletta, ad esempio, sui seguenti versi immaginifici che invertono le consuete figurazioni geometriche di astrazione del pensiero: “e dal letto lasci il sesso arrampicarsi / attorno ai contorni di questo edificio / nel suo bianco sotto raggi tempesta, / la stella nell’attimo prima di esplodere” (Aquatic Centre, pag.31): in essi si postula il nascere, devo dire con una intuizione sorprendente, come fenomeno di sguardo e non più come accadimento drammatico-traumatico di violenza che si realizza esclusivamente nella dimensione corporea: il sovvertimento concettuale ed emozionale è già qui indirizzato verso l’Essere digitale in cui la componente visuale e dell’immagine è cospicua: questa è un’apertura, vi siamo già entrati mentre la contempliamo nei versi, la poetessa ci sta sospingendo verso il Digitale.
Ci si stupisca e ci si commuova leggendo questi altri versi in cui due persone che dormono una accanto all’altra credono di essere la centrale, unica realtà dell’essere e si scoprono invece ologrammi (torna qui il tema del riflesso), immagini, perfino, dentro l’obiettivo che viene aperto e chiuso da un uomo all’altro capo dello spazio e al di là della misura di dimensione (un gigante che è “là su” ma che è correlato al “qui giù” dal suo guardare): “nell’idea che sopra di noi / qualcosa…….nel buio ci fa levitare. ……E un silenzio….di noi / qualche uomo lontanissimo / prova l’obiettivo, / non il buio.” (Miniature 2, pag. 53) Metafora di un “dentro” che si pensa dentro, ma è un fuori di un altro “fuori” che lo vede fuori. Simultaneità, riflesso, immagine e visione: tutte le loro trasmutazioni, ogni loro inversione antipodale, ciascun loro sovvertimento che va a costituire un’estetica dell’Essere digitale nel suo farsi, lasciano sospeso un interrogativo ed insinuano una curiosità inquieta: ma l’etica ed il suo corrispettivo emotivo che è la relazione interpersonale (vedremo che per la poetessa il concetto di etica acquista una sua realtà solo se si sostanzia nella relazione, connotata affettivamente, tra il “me” ed il “te) non hanno voce e corpo? Che ne è di loro? Maria Borio risponde in una sezione “esegetica” di “Trasparenza”, con una versificazione in cui la discorsività sembra farsi più distesa, più “trattatistica”, ma è solo un’apparenza che cela un ritmo vibrante, serrato, ma necessario ad esprimere la partecipazione intima dell’autrice, a volte inquieta, altre volte dolente; l’etica è codificata teoreticamente attraverso il sentimento che si tende tra il “te” ed il “me”, ed è un sentimento, si badi bene, superstite alla luce “cataclismatica”, distruttiva nel suo bagliore raggelante, dell’esperienza: esso diventa residuale, un sopravvivente quasi fantasmatico: ”e l’affetto abbaglia per disincanto” (Del bene, pag. 41): si noti l’antifrasi serissima e malinconica di quello “abbaglia per disincanto”, (per inciso: qui ci si sbarazza della codificazione, ormai divenuta una sorta di dogma, del sentimento che vive e si approfondisce nell’esperire la vita): “Del bene infine tra te e me / senza che io tu, / tu io…… (Ibidem, pag. 41).
L’Essere digitale ha un suo sostrato di antico? Ha degli ascendenti mitici, magari non necessariamente fondativi? Se esso è qui ed ora e nel contempo è anche là, se tutte le persone vedono, possono guardare, se stesse e gli altri in ogni momento, e guardarsi di nuovo ed infinitamente-indefinitamente, che senso ha parlare di mito che è un ancoraggio remotissimo che si allunga nella dimensione della profondità? Il Digitale non ha forse solamente due direttrici: la verticalità e l’orizzontalità? Maria Borio ci rivela che esso è all’intersezione di ripetizione e continuità e che la tensione elastica tra questi due poli crea una forma nuova di “profondità” in cui si rappresenta la sedimentazione dell’antico: il Video ed i suoni che ad esso sono strettamente correlati ma che al contempo lo trascendono conseguendo una loro esistenza autonoma. Se l’ Essere digitale è nuova forma dell’essere, esso avrà anche indotto la speculazione teoretica a fondare un’inedita ontologia e la poetessa ce la enuncia in questi termini: il Digitale incardina il proprio essere attorno all’asse che mette in relazione il guardato, il Video, con l’indeterminazione, l’illimitatezza delle possibilità che ha il guardante di arrestare, svolgere, riavvolgere in qualsiasi punto ed in qualunque momento il guardato-video; il guardante non può che essere uno e uno solo (si potrebbe obiettare che possono esserci più guardanti, ma così non avremmo più lo stesso guardato, ma tanti guardati quanti sono i guardanti, esiti differenti a seconda delle capacità di visione di ciascun guardante), e l’uno non può che essere “individuo” cioè una persona che mentre guarda e ascolta interagisce con il guardato e questa interazione determina delle ipermetrie, delle “presbiopie”, degli slittamenti dei fuochi (ottici ed emotivi) nella visione (le stesse enunciazioni valgono per l’ascolto dei suoni) del guardante: si generano così degli scarti che aprono degli spazi interstiziali, liminali inaspettati: in essi il guardante si deposita nel guardato ed è in questa inconsueta specie di profondità che si rinviene l’arcaico, il mitico, il rito antichissimo e primordiale che si perde nelle “nebbie” del video-guardato-ascoltato-dal guardante: “diventi una traccia sedimentata se ascolti / cosa si sveglia per riconoscere l’africana dei morti…. È un esistere depositato, / il rito ritrova famiglie…” (Tornando 1, pag. 57) Il concetto di modernità è co-originario a quello di città: la città ne è compendio, sintesi ed espressione.
Come sarà pensata la città, come si articolerà nell’Essere digitale, che fisionomia avrà assunto in esso? Per rispondere a questi interrogativi, all’autrice viene in soccorso il carattere più emblematico ed identificativo della metropoli moderna: la trasparenza, i riflessi dei suoi innumerevoli e prismatici corpi architettonici ed urbanistici fatti di vetro, acciaio, componenti traslucidi attraverso i quali le persone e le cose, o più propriamente le loro figure s’immillano, si fanno simultanee, si sdoppiano e si toccano un attimo per poi discostarsi immediatamente e reinsediarsi nella loro simultaneità o dileguarsi nell’irriflesso: dimensione metropolitana e Digitale sembrano proprio formare un connubio in cui il secondo trova nella prima la realizzazione più compiuta del suo essere che è fatto di reversibilità, istantaneità, rovesciamenti nell’opposto delle prospettive, sintesi di “puro” umano nel commisto, “impuro” digitale: due persone sono in un treno metropolitano, la figura di uno dei due si riflette sul vetro del vagone, ma il riflesso è composito, sono diversissime ed incongrue tra loro le immagini che lo costituiscono: e una trasparenza mai vista prima che ingenera nell’altra persona che la guarda un sentimento quasi di sgomento, perché la visione è per lei assolutamente inusitata; il treno metropolitano sussiste nella sua velocità, forse è null’altro che velocità: trapassano gli uni negli altri i riflessi sui vetri del vagone e la velocità ne divora molti, altri ne genera in un succedersi di apparizioni e dileguamenti vertiginosi che fanno smarrire il senso delle azioni, delle attività consuete dei due viaggiatori; la linea della velocità si arresta in brevissime pause nelle quali per un attimo sembra che si possano intravedere delle linee prospettiche lungo le quali si possano distendere delle possibilità per l’agire umano perché l’Essere digitale conosce l’eventualità dell’esistenza umana solo se qualcuno da qualche parte può vedere quell’esistenza, guardarla e riguardarla dopo averla registrata in un video: qui la metafora che Maria Borio concepisce ha una forza immaginativa e di suono di rara bellezza poetica: “Il lavoro che inventi oggi negli spacchi dell’aria” (U.S., pag. 110): gli spacchi sono le vie trasversali alla linea del treno metropolitano che per un attimo si aprono alla vista, subito ingoiati dalla velocità che procede tra gli edifici che si serrano ai lati della strada ferrata; non vi è più riflesso né visione allora la poetessa consegna, con accorato tono elegiaco, la sua invocazione alla metropoli affinché le restituisca una visione prospettica aperta e tutto ciò che è suscettibile di essere visto e quindi può essere riflesso, scomposto, ricomposto, ripreso in Video, guardato e riguardato, riconfigurato nella mediazione del “trasparente”, insomma digitalizzato, non è mai irrimediabilmente perduto: “Mare, bosco e industria, / trasparente, creato / – sorprendimi ai fianchi della sopraelevata…” (Ibidem, pag. 110): solo la città, o l’ambito urbano, può avere un treno sopraelevato che cancella come d’incanto ogni ostacolo al guardare.
Claudio Cesaroni