Il poeta marchigiano Alessandro Moscè, tra i migliori della sua generazione, ha dedicato un libro al padre che lo ha lasciato nello scorso febbraio. Una raccolta commovente, di certo ricca di tanti spunti che riepilogano la vita di un uomo, di una famiglia unita, di feste estive, di ricorrenze celebrative come nell’esistenza di tutti noi. Moscè ha questa capacità di cantatore: parte da un dato personale e lo rende universale, come parlasse, in questo caso, ad ogni padre e ad ogni figlio.
La vestaglia del padre (Aragno 2019, prefazione di Roberto Cotroneo) è un fedele canzoniere d’amore, cucito da una scrittura che apre al suo interno una dimensione spaziale di case e di tempi tra gli anni Settanta e gli anni Duemila. Lo sguardo evocativo e analitico converte l’azione in ricordo, quando proprio la figura del padre è colta nei riquadri di Roma, dove ha lavorato a lungo come geometra. La fenomenologia di Alessandro Moscè si snoda nei luoghi metropolitani e provinciali, nei paesaggi urbani e nella campagna fabrianese, nei primi piani, negli sfondi, negli interni annodati al firmamento del genitore ormai anziano, raccolto nella sua vestaglia e nei suoi schemi abitudinari. Affiora la nostalgia per la mancanza, il vuoto circolare come in questi versi bellissimi: “Il fiore di rame è il lascito della penombra, / in quell’angolo riparato dove non batte il sole / e se volessi scendere / useresti la scala di ferro appoggiata al muro. / Si cerca sempre di dare un senso alla morte / che sia il bisogno dei vivi tra i vivi”.
Moscè scrive anche di altro, recuperando flash back di stazioni, adolescenti diventate donne, il reparto di un ospedale, un ex manicomio abitato da individui alienati, ma è il padre il mirino ristretto, la resa totale dei versi, il tono immutabile del suo timbro, l’intensità del sentimento che lo fa essere ancora figlio prediletto, come da infante quando voleva diventare un giocatore della Lazio (presumiamo che la passione per il calcio gli sia stata trasmessa proprio dal padre). Il realismo visionario di questi testi fa dei volti anime vive anche se non ci sono più. I nonni e gli zii partecipano ad un’epica familiare mai estranea all’io e al noi e che ritorna da dove aveva preso il via (“Papà tenderà la mano / nel passo calmo, un po’ infreddolito / e sbracciando dirà che c’è, che è tornato. / Sono pensieri taciuti, assurdi, / che fanno compagnia nell’ora del lupo”). Non c’è dubbio che il verseggiatore di Ancona che vive a Fabriano, abbia trovato la sua energia nel patrimonio della tradizione marchigiana (come non pensare all’insegnamento di Leopardi, alla sua siepe che non chiude l’orizzonte, ma anche a Scataglini, Piersanti, Scarabicchi, ai poeti che anagraficamente lo precedono), nella lirica dell’esperienza e del montaggio tradizionale, nel sogno di una trascrizione infinita dove le fotografie dei parenti lo suggestionano al pari di rari reperti storici.
Alessandro Moscè consacra la parola, la restante vita sovrapposta agli anni d’oro dell’età scolare: “Quanti occhi avevamo nella fiamma / delle luci di Natale e degli accendini del nonno / nel lumi di seta dei copri lampada, / nella febbre dell’allegria / nascondendoci dietro le porte, in bagno, nella nostra regalità infantile”. Un’evidente disappartenenza a modelli sperimentali, ad un linguaggio che non sia aderenza al soggetto e all’oggetto, fanno di Moscè un poeta del secolo corso e non solo di quello attuale, perché si sente soprattutto l’eco di Umberto Saba, una nitida rappresentazione confessionale che sublima il contenuto. Scrive Roberto Cotroneo: “Terrò cari questi versi, per imparare a leggere e rileggere, perché dalla poesia si impara sempre, versi come asole di una divisa di lana spessa che portiamo in questi sentieri di ghiaccio che siamo condannati ad attraversare”.
Andrea Liverani