Un pervertimento della Ragione, un’escursione drammatica e repentina della “temperatura” della Storia, un cataclisma dell’Etica, possono perpetuare la loro esistenza attraverso la vita, e la distruzione di essa, di tre persone? Nel comporre il disvelamento di tre singoli destini nel romanzo “Conforme alla gloria” Voland, Roma 2016, Demetrio Paolin risponde affermativamente. Un abominio immane come lo sterminio sistematico di milioni di persone perpetrato dal Nazismo, o meglio dall’universo concentrazionario del regime nazista, come riesce a trovare il modo di eternarsi attraverso le vicende e l’incontro, diretto od indiretto, di tre individui e dei loro occultamenti più intimi? Come può realizzarsi questa specie di incantesimo, questa sproporzione quasi magica? La risposta che dà Demetrio Paolin è tanto sorprendente quanto originale è l’intuizione che dà vita al romanzo: per mezzo dell’Arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.
Rudolf Wollmer è uno dei tre protagonisti dell’intreccio di accadimenti privati: egli compirà il suo destino perdendo se stesso; questa dissipazione personale è metafora dell’impotenza della cultura, della civiltà e della storiografia a fare dell’annichilimento di massa memoria storica viva e condivisa. Il padre Heinrich ha aderito con entusiasmo al Nazionalsocialismo, sin dalle origini, (non a caso sul letto di morte intona beffardo ed irriducibile, di fronte ad un sacerdote che gli sussurra suggestioni che per lui non hanno alcun senso, l’inno delle Squadre d’assalto, le “Sturm Abteilungen”, la compagine para-militare originaria del Partito Nazista che diverrà SS, “Schutzstaffel” o “Squadre di protezione”) per poi diventare uno zelante membro delle SS che, nella fase terminale del regime, sovrintende alla gestione del campo di sterminio di Mauthausen: qui fa tatuare su quasi tutto il corpo di una giovane internata una complessa e perturbante allegoria della gloria del Reich. Col rinvenimento casuale di un quadro seminascosto nell’appartamento che Heinrich, dopo la sua morte, lascia in eredità al figlio Rudolf si avvia la macchina narrativa con cui Paolin ci fa, in modo diegetico, comprendere la sua tesi: l’Olocausto come grande questione universale, come tema collettivo di elaborazione etica, civile, politica e storica non può avere che due esiti: la relegazione nei musei a mo’ di testimonianza fossile, inoperosa dal punto di vista del monito pedagogico oppure la metamorfosi della sua drammatica sostanza etica nelle molteplici suggestioni della moda che la privano del suo autentico significato. Tutto questo rende l’intero quadro della conoscenza del fenomeno Olocausto mutevole, equivoco, frammentario ed esposto all’ “oltraggio” delle confutazioni più balzane ed indimostrabili.
Ora torniamo alla dimensione privata, “domestica” del romanzo, quella che concerne il rapporto tra padre e figlio. Rudolf scopre che la “tela” del “quadro” conservato dal padre è fatta della pelle conciata di un essere umano tatuato: quella della giovane internata; lo sgomento iniziale lascia rapidamente il posto ad un bruciante disvelamento intimo: il padre nazista ha impresso il suo “marchio” di identità sul figlio (meravigliosa l’eco simbolica e sottotestuale del brano che descrive la marchiatura a fuoco di un vitello, con la testa insaccata in un cappuccio nero, a cui Rudolf assiste ad una fiera del bestiame in una delle tante cittadine in cui fa sosta mostrando il “quadro” di suo padre, ora anche suo, sperando che l’ostensione agli altri tedeschi lo affranchi dall’identificazione con il padre a cui è stato costretto dal ritrovamento della “gloria del Reich”; nessun altro tedesco, però, può condividere pubblicamente, nella piazze, nel corso dell’orazione-supplica, quell’identificazione che tanto opprime Rudolf; non sarà quello il modo di sublimare quell’insopportabile identità); prima di allora Rudolf sapeva che Heinrich era stato ed aveva continuato ad essere, dopo la fine della guerra, con manifesto orgoglio, un nazista; ora ha capito, grazie al quadro di pelle umana tatuata, che si può essere felici, soddisfatti di ciò che si è fatto e vissuto, sereni nel proprio intimo, pur avendo direttamente gestito le operazioni di uccisione di gruppo tramite gas, l’incenerimento nei forni crematori: pur avendo sottoposto altri esseri umani alle sevizie più crudeli; insomma, l’ultimo tabù è infranto: si possono compiere azioni ignominiose ed essere felici! Ma la felicità non ha di per sé una connotazione esclusivamente positiva? Non si è felici solo quando, ad esempio, si ama e si è riamati? No, non è così, e il fulgore sinistro dell’allegoria su pelle umana di una giovane uccisa, la “gloria del Reich”, sta lì a dimostrarlo.
A questo punto se anche suo padre Heinrich ha condotto una vita sostanzialmente felice, abbandonandosi alla violenza più turpe, la felicità che Rudolf ha provato amando sua moglie e suo figlio, che ricambiano questo sentimento, lavorando nel sindacato per assistere altri esseri umani, parlando con la moglie di arte, costituendo una sua famiglia, non ha più alcun senso, tutta la sua esistenza non ha senso. Ma quando, come ora Rudolf, si è divenuti solo male senza esserne, al contrario di suo padre, felici, che cosa si può fare? Uccidersi o uccidere qualcun altro nella speranza di trarne un sentimento di felicità, o quantomeno un senso di liberazione: il suicidio farebbe conseguire solo la cessazione dell’infelicità presente: ma se ci fosse un modo per “assassinare” l’identificazione, disvelata dal dispositivo psichico attivato dalla contemplazione di “la gloria del Reich”, col padre SS? (emblematico l’esergo che Paolin ci presenta dal Marchese de Sade: – Non ci rimangono che due alternative: o il crimine che ci rende felici o il nodo scorsoio che pone fine alla nostra infelicità-). Per rispondere a questo interrogativo l’autore, in primo luogo, ci rammenta costantemente che l’identità di Rudolf ed Heinrich è fissata nella tela tatuata: assume la forma di un’opera d’arte, per quanto singolare possa essere, e di qui fa discendere, nel sottotesto esegetico che conferisce alla macchina narrativa un respiro ampio, le considerazioni sulla natura, l’origine e la realizzazione di quel “dipinto”, di quella incisione. “La gloria del Reich” viene concepita da una SS in un campo di sterminio, quello di Mauthausen; la sua ispirazione origina dal capovolgimento di un paradigma etico-estetico che era stato uno dei cardini della cultura occidentale fino all’avvento dei totalitarismi: la perizia artistica che è anche qualità umana, se non virtù, in quanto forza creatrice che genera visioni, simboli, realtà e consente all’artista di trascendere se stesso, di farsi anche più grande della propria soggettività e quindi migliore; qui la capacità di disegnare, di dipingere diventa una dannazione per chi la possiede perché lo costringe a procurare dolore e morte: Enea Fergnani, il secondo protagonista del romanzo, giovane internato con una spiccata inclinazione per il disegno e la pittura, non può far altro che tatuare il corpo dell’altra giovane prigioniera, rendendo così impossibile la sua già molto improbabile sopravvivenza.
Heinrich Wollmer trasforma in un “sodale” di sterminio Enea, un prigioniero. Il rovesciamento etico è totale: Enea, a causa delle sue capacità, diviene doppiamente colpevole: aumenta le sue probabilità di sopravvivenza rispetto ai suoi compagni di sventura perché viene ricompensato con doppie razioni di cibo e può stare un po’ al caldo e condanna a morte certa la sua “modella” coatta che già era una delle schiave sessuali del campo. Enea Fergnani scamperà all’Olocausto, aprirà uno studio di tatuaggi a Torino ma si sentirà sempre un carnefice, mai una vittima. Non riuscirà mai a provare quel sentimento di comunione che lega i pochi altri superstiti dello sterminio perché lui è un sopravvissuto particolare: è l’incarnazione di contraddizioni che non sono ricomponibili: è sopravvissuto grazie ad un bene, la propensione all’arte, che sì è tramutato in una colpa, si è salvato in virtù di una colpa, è sì rimasto vivo ma da corresponsabile dei nazisti pur non indossando una divisa nera con i teschi, quindi non è neanche un sopravvissuto come certi suoi compagni che hanno resistito con la loro forza interiore, con la loro renitenza, per quanto necessariamente molto limitata, all’ordine del lager: lui è ancora vivo perché tatuava al caldo di una stanza di una SS una povera disgraziata ridotta a tela umana, a cosa, mentre gli altri prigionieri si consumavano nel gelo e nella fame, fuori, all’aperto. Enea ha compiuto il male con un nazista, ma naturalmente non ne ricava alcuna soddisfazione né felicità: al contrario di Heinrich Wollmer, è un aguzzino infelice. Enea Fergnani e Rudolf Wollmer sono in una condizione molto simile: sono nazisti senza esserlo, ciascuno a suo modo è vittima del Reich, eppure entrambi sono diventati il Reich, sono “conformi” alla gloria.
L’allegoria su pelle trova la sua collocazione in un museo sui campi di sterminio e così viene condannata all’insignificanza dall’esposizione pubblica: gruppi di studenti vengono condotti a vederla, la si guarda perché la si deve guardare, coltivando l’illusione che possa contribuire all’educazione etica e civile della collettività democratica; si prova un brivido fugace soddisfacendo la curiosità per l’abnormità, per la sensazionale dismisura del macabro, ma non si sedimenta alcun portato etico; l’opera può divenire gadget, mirabilia, uno degli innumeri segni del “Sensazionale” che è la connotazione precipua della comunicazione contemporanea: ecco perché, nel romanzo di Paolin, la memoria dell’Olocausto non può che essere una questione privata che si sviluppa nell’interazione tra tre persone. Sarà la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte a consentire ad Enea di vedere una foto della “gloria” stampata in un giornale: quella visione, anzi quella apparizione, gli grida che c’è finalmente la possibilità di appagare il suo desiderio osceno, inconfessabile: se il tatuaggio che fece nel campo di sterminio è stato riprodotto, e prova ne è la foto di esso sul giornale, perché non reiterare il suo disegno, che egli ricorda con grande precisione nei più minuti dettagli, sulla pelle di un essere umano vivente in modo da assoggettare anche quest’ultimo alla “gloria”, iscrivere anche quest’ultimo nel registro dei dannati, condividere felicemente la sua colpa intima, personale con un’altra persona; farsi di nuovo carnefice sì, ma soddisfatto questa volta. Come si può essere colpevole e, nello stesso tempo, felice della propria colpevolezza? C’è solo un modo: la vittima deve acconsentire a farsi oggetto del male, deve trarre piacere dal soggiacere all’azione turpe del carnefice; Enea non è Heinrich: quest’ultimo era “innocente” perché era soddisfatto di ciò che aveva compiuto nei campi di sterminio; la SS non è mai sfiorata dal dubbio su una sua qualche eventuale forma di colpevolezza perché l’esercizio feroce della violenza è realizzato in quanto se ne trae piacere, è quasi un’ebrezza erotica – mi si dia licenza di confessare, qui, quanto abbia sentito nel corso della lettura del romanzo gli echi lontani, ma suadenti per la loro pregnanza di significato, di opere letterarie e cinematografiche (“L’arancia meccanica” di Kubrik tratto dall’omonimo romanzo di Anthony Burgess oppure Ernst Jǘnger con le sue tematizzazioni della violenza come generatrice di voluttà) -. Enea deve trovare una ragazza su cui riprodurre il tatuaggio, ha bisogno del soggetto-oggetto masochistico per realizzare la dinamica relazionale sadomasochistica; egli dovrà affannarsi a lungo nella ricerca di quella che è la proiezione simbolica della internata ucraina nel lager.
Il terzo personaggio della triade “privata” è Ana: essa deve possedere delle caratteristiche precise: come la “modella-tela” di Mauthausen è destinata alla morte perché il caso l’ha consegnata alla macchina di sterminio congegnata da quella immane ossessione collettiva che è il Nazismo, così Ana delinea il suo destino di morte prematura nutrendo l’ossessione per la incorruttibilità della bellezza della sua pelle. La proiezione simbolica della ragazza del lager è una proiezione rovesciata: la giovane torinese, senza storia o biografia, (è una delle tante persone del sud d’Italia che sono andate a vivere nella città sabauda), non è, però, vittima involontaria, come la “muta” prigioniera di Mauthausen, di un’ossessione collettiva, ma al contrario vuole che la sua di ossessione si realizzi compiutamente: essere solo pelle (ed ossa, come i superstiti dell’Olocausto) perché solo su questa magnifica superficie, resa dinamica dai movimenti degli arti e del busto, si può fissare la bellezza del corpo. L’identità di Ana non è il frutto di un processo di vita, di esperienze, di relazioni e di conoscenza che si dispiega nel corso del tempo, ma un calco, un disegno preparatorio, una “sinopia” tracciata in seguito ad un traumatico accadimento infantile (una otite non curata tempestivamente che le ha fatto correre il rischio di avere il volto deturpato per sempre); insomma Ana è pronta, pur non avendone consapevolezza, anzi è stata predisposta da ciò che le è accaduto da bambina, a farsi “tela” per Enea, a farsi “istoriare” (lei che è senza storia personale) sulla pelle “la gloria del Reich”. Per Enea non ci sarà forse felicità nel tatuare l’allegoria sulla pelle di Ana, sicuramente, però, potrà non sentire alcuna colpa perché ha capito che la ragazza non desidera altro che trascendere la sua corporeità: in qualche modo vuole essere solamente un quadro di pelle umana ed Enea, questa volta, non avrà nessuna colpa.
A questo punto Ana ed Enea hanno quasi compiuto i loro rispettivi destini. E qui sopraggiunge il destino di Rudolf che incontra Ana e le rivela che significato abbia il disegno che le ha tatuato Enea: se il tatuaggio ha un significato così preciso, se esso identifica un abisso dell’animo umano, se la sua estensione semantica delimita un campo così universale e al tempo stesso così tenebroso, il suo “peso”, la sua formidabile, sinistra maestosità non possono essere sostenuti da un essere umano: forse Ana potrebbe, a questo punto, precipitare in una vertigine angosciosa, pietrificare il suo mondo emotivo in uno stato stuporoso ed essere solo corpo con le sue funzioni, ma non può più fare assegnamento sul suo corpo, esso è ormai trasmutato in una tela di pelle dipinta; non le rimarrà altra scelta che il suicidio e lascerà le sue spoglie mortali al direttore del Museo del Porno di Zurigo, uomo gentile e profondo conoscitore delle performances dell’arte contemporanea che aveva cercato Ana qualche tempo prima, dopo averla vista in un video che mostrava una performance di Enea; Ana capisce che l’uomo è premuroso con lei perché intuisce le potenzialità espressive della sua pelle tatuata: lei, ormai, agli occhi degli altri è un oggetto, forse un oggetto che possiede un valore artistico, ma comunque un oggetto. Sarà la rivelazione di Rudolf a fare di Ana, ma a questo punto possiamo usare il suo nome “al secolo” come si fa per tutte le vittime degli eccidi di massa e dei genocidi, di Loredana di Cascio l’ultima vittima dell’Olocausto, una annientata “postuma” dello sterminio nazista a più di settanta anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: ecco che si perpetua “la gloria del Reich”, l’Olocausto, nel destino di morte di questa ragazza che con la Seconda Guerra Mondiale ed il Nazismo non c’entra niente.
L’orrore della “reificazione”, dell’essere umano degradato a cosa, come accadeva nei campi di concentramento, si mimetizza, si camuffa da opera d’arte: Ana, il cadavere di Loredana di Cascio, verrà sottoposta ad un procedimento di plastinazione che la trasformerà in una specie di scultura esposta al Museo del Porno di Zurigo. Rudolf ha sublimato l’identificazione con il padre nazista, ha annichilito Ana, ha contribuito all’annientamento di una innocente e così ha conseguito quella tranquillità che gli permetterà, dopo aver distrutto l’emancipata, buona, liberale, democratica vita da borghese progressista (una generazione di tedeschi che si è appropriata della coscienza di sé e della cognizione del proprio posto nel mondo nei sommovimenti del ’68, per essere poi accolta nel rassicurante alveo della cultura e dell’azione politica della Socialdemocrazia dopo che quest’ultima, dieci anni prima, aveva compiuto la svolta riformista del Congresso di “Bad Godesberg”; l’antagonismo nei confronti dei propri padri, convertiti alla democrazia nel secondo dopoguerra, non fu così radicale e profondo come in Francia dove travolse perfino le tradizioni epistemologiche e le gerarchie della conoscenza: nel “Maggio” francese i giovani “contestatori” opposero e sostituirono al sistema conoscitivo e pedagogico dei loro padri, fondato sulla Storia, la Letteratura e la Filosofia, la triade di discipline ed arti dell’Inconscio – anche collettivo -, e cioè: la Psicanalisi, la Sociologia ed il Cinema; in Germania la contestazione fu certamente aspra e profonda, ma non produsse quella frattura non ricomponibile tra padri e figli. Le identità strutturate, con una forza rinnovata sono spesso frutto di contrapposizioni radicali: in Germania questa lacerazione generazionale non ci fu, ed è forse anche per questo, a causa di una identità civile e politica più debole perché meno “forgiata” dalla radicalità, che Rudolf non riesce a contrastare l’incombere, anche dopo la morte, della personalità del padre; di fronte al ritrovamento della “gloria del Reich” ed alle sue implicazione psicologiche, Rudolf è davvero inerme, sorprendentemente disarmato, non è dotato di alcuno strumento psicanalitico) di sopravvivere, ma dopo aver compiuto il male anche lui, anche lui “felicemente” conforme alla “gloria”.
Enea è il superstite-aguzzino, è una forma teratologica, la chimera mostruosa dell’internato-sterminatore; non può far parte della comunità dei sopravvissuti innocenti e Demetrio Paolin allestisce attorno a questo personaggio una lieve, ma puntuale, macchina di rimandi simbolici: il tatuatore che non disegna numeri, come succedeva in molti campi di concentramento, le performances che hanno come azione centrale l’inspirazione ininterrotta di fumo di sigaretta; questa macchina di rimandi simbolici raggiunge il culmine della sua significatività quando ci mostra Enea nella sua stupefazione febbrile di fronte alle rischiaranti fiamme ed al fumo dell’incendio della cupola del Guarini a Torino e l’eccitato, turbato, ostinato tentativo di riuscire a vedere gli arsi vivi, estratti dal rogo dell’acciaieria tedesca, ormai in fase di dismissione, Thyssen-Krupp di Torino; Enea, il sopravvissuto-carnefice, ha un intimo, tenace struggimento: condividere la comunione dei suoi compagni di campo che sono diventati fumo e cenere nei forni di cremazione; in fondo anche Heinrich Wollmer, la felice, compiaciuta SS che traeva soddisfazione e piacere dal dare la morte, è stata cremata, anch’essa è fumo e cenere. Una cenere che si deposita sulla memoria storica, un fumo che si fa nebbia d’oblio: solo questo rimane nello spazio collettivo, ma Enea Fergnani, dopo aver contribuito all’annientamento di Ana facendone una copia conforme alla “gloria”, si farà metaforicamente di fumo attraverso l’opera d’Arte e cioè le sue azioni sceniche di inspirazione senza soluzione di continuità di fumo di sigaretta. Coloro che assistono a questa forma d’arte non coglieranno in essa alcun riamando ai “sommersi” come Enea ed ai “salvati” come il suo amico Bruno, compagno di prigionia a Mauthausen. Ma Enea, così come Rudolf, avranno mantenuto in vita, nel compimento dei loro destini privati, il significato dell’Olocausto.
Claudio Cesaroni