La contemporaneità è un vocabolo di per sé ambiguo, dilatabile in uno spazio temporale che non ha un inizio, né una fine: contemporaneo può essere Giacomo Leopardi come uno scrittore che vive, adesso, il terzo millennio. Cosicché il romanzo di formazione, il bildungsroman di derivazione tedesca, va datato e collocato, per capirlo meglio. Matteo Fais (nato a Cagliari nel 1981), con Storia minima (Robin 2018) ci ha consegnato una storia del Duemila, i dolori di un giovane Werther che di Goethe, in fondo, tiene per sé il senso di romanticismo rovesciato nel suo esatto opposto: l’antieroismo, come sottolinea Franz Krauspenhaar nella prefazione. L’università, la disoccupazione, il sesso, l’alcool trascinano il protagonista in un’emotività transitoria dentro locali e spazi deprimenti, in cui il rapporto carnale, d’occasione, è nient’altro che uno sfogo con una ragazza dai capelli dolcemente evanescenti e luminosi, più carina o meno attraente, più grande o coetanea.
Se c’è un romanzo sui giovani che stigmatizza le angosce e le illusioni, questo è Storia minima. Il personaggio di Matteo Fais, nella tramatura, non fa altro che inviare curriculum dopo la laurea, “con l’automatismo freddo di un robot alla catena di montaggio”. La mente gira a vuoto, come i siti del computer, le chat, in una “quieta e disperata tranquillità”. E per chi non ha conosciuto la guerra, gli scontri di piazza, l’ideologia, il liberalismo sfrenato, cos’altro resta se non sedurre una donna, magari quella di un altro, in un gioco cinico e adrenalinico? Il nichilismo si combatte con l’amore rifluito in episodi sparsi, in una quotidianità al minimo che salva dalla morte, finché all’io narrante non viene dato un posto da precario: sarà un insegnante di filosofia in una scuola privata, ma rimarrà un’isola perduta nel grande mare.
Il racconto procede con brandelli di pensiero e inquadrature sceniche grottesche, al limite dell’insignificanza dell’uomo, nel vagabondaggio sessuale che raramente può toccare le corde dell’amore in una complicità ignota. Scrive Fais: “Mi fermavo a osservare i volti degli automobilisti. Vedevo il loro malessere, le facce stressate, solcate da nevrosi. Qual era il senso di tanta stolida frenesia?”. Se queste pagine possono rasentare il triviale, hanno un merito indiscutibile: mettono a nudo colpevolmente, smascherano il corpo sociale, l’alienazione o l’apparente serenità di una generazione parcellizzata. Alcune ragazze del romanzo sembrano atarassiche, altre al limite del parossismo. Matteo Fais ragiona e al suo io dà consigli, fornisce indicazioni, esortazioni. La lingua che utilizza è un’onda magnetica, un registro di fatti tellurici, ma anche di argomentazioni aperte alla lingua comune, come dimostrano il sintagma e specialmente il dialogo. Storia minima è un bel romanzo ontologico, colmo di rifrazioni e di rasoiate. Infine, in un colpo di scena imprevisto, ci si accorge che l’esistenza va in cortocircuito, perfino vigliaccamente, senza avvertire: il protagonista è spettatore gelato e non artefice coscienzioso dei suoi gesti. Se dalla cronaca nera si apprende come l’Italia sia un paese di eventi ominosi, questo romanzo cerca sempre la verità e il riscatto del singolo, ridotto però ad una ineluttabile flatus vocis. La cerniera tra passato e presente, tra padri e figli, non si chiude mai. Ed è un’amara constatazione.
Alessandro Moscè