di Rossella Frollà
Paolo Lagazzi
Come ascoltassi il battito d’un cuore.
Incontri nel cammino di Attilio
(Moretti & Vitali 2018)
Ringraziamento per un quadro
[…]
Era un giorno bellissimo e gli stavo
vicino: il suo tocco quietava
la mia angoscia
come ascoltassi il battito d’un cuore
che la luce d’estate lenta a spegnersi
nutriva del suo fuoco, della sua
verità: avrei dovuto allora
umilmente seguirne la pazienza
nel descrivere il volgere del tempo
a un ardore più temperato, a un
primo fresco della sera.
Oggi di quel trapasso raggiante
mi parlano le ombre proiettate
dagli olmi sulle stoppie e sulla messe
rimasta intatta per metà del campo
ormai illuminato dal sole per sempre.
(Attilio Bertolucci, da Viaggio d’inverno.)
La forza “esorcistica” della pittura muove dalla stessa grazia che governa la parola: «dipingere dal vero significa abbandonarsi al flusso del tempo lasciando che il proprio respiro, che il battito del proprio cuore si adagi nel movimento del mondo; in questo abbandono l’angoscia suscitata dalla fuga incessante della vita si scioglie in una specie di musica».
Ancora una volta Paolo Lagazzi ci racconta di Attilio Bertolucci, del grande poeta così «come mi è stato concesso dal destino», scrive il critico. «È la più straordinaria delle avventure», il ricordo di un’amicizia amata, durata una vita. Un incontro di lunghe pagine scritte sulla sua opera con l’unico rimpianto di non aver scritto abbastanza: «quante altre cose avrei potuto dire e non riuscirò mai a dire». È lo stesso rimpianto che avverte Bertolucci nei confronti di quei doni della vita che sente di aver trascurato. Tuttavia nonostante queste «risacche d’angoscia», Lagazzi indossa e smette i panni del poeta seguendo una sorta di mobilità creatrice che permette al lettore di cogliere quell’«esperienza di soglia» «tesa fra il famigliare e l’ignoto», quella mitezza di Bertolucci che nasconde una «ferita permanente», «un selvatico candore». Il contraddittorio segna fino in fondo la poesia di Bertolucci: l’istinto di spaziare in ogni direzione, tra il reale e il fantastico, tra visioni oscillanti sulle verità e la libertà che si dibatte contro il destino. Si avvera la domestica pazienza all’«incrocio di senso» di chi è votato a un rapporto sapienziale col mondo. «Ai versi profumati d’erba, di boschi e di vento» si intreccia il bisogno «di “inventare dal vero”, di fare lievitare la realtà verso la fantasticheria o il reame dei sogni, fino a sfiorare, nelle due prime raccolte, un fresco, personalissimo surrealismo». Il senso intimo è il patto d’onore con il sé che si apre al mondo «a partire dal grande territorio dell’infanzia».
Paolo Lagazzi ci riconsegna l’uomo privo di certezze ma assetato di verità. L’incontro tra il critico e il poeta è nel gioco quasi magico e avventuroso alla ricerca della qualità originaria delle cose: «La passione del poeta per linee, colori e figure è semplicemente la via primaria del suo confrontarsi con l’esistenza nell’infinito gioco metamorfico della propria bellezza e del proprio mistero». Vi è un tempo che raduna altri tempi e «si apre e decanta al soffio leggero e fiammante delle visioni rivelatrici». Il poeta, scrive Lagazzi, «”mima” stili e traiettorie dello sguardo dai fiamminghi agli impressionisti, dal Romanticismo all’Informale; sa evocare, dal cuore stesso di un’inquadratura “realistica”, prospettive aleggianti verso un altrove azzurro, mitico, fiabesco; cita Correggio e Parmigianino, Tiziano e Rubens, Poussin e Bonnard: dialoga perfino con la pittura astratta (Antòn Atanasio Soldati) se scopre in essa un’estrema scintilla di quel quid indefinibile, ma assolutamente prezioso, che è la grazia». In queste risonanze che il sé restituisce alla parola vi è per il critico e il poeta l’incontro con la gioia di un gesto iniziale, il guizzo adolescente del debutto, il caso che raccoglie l’esperienza di ciascuno perché non tutto è deciso. E tornano entrambi su se stessi, sfiorando il cammino precedente. La parola crea quella mobilità che trasfigura ogni sentire in nuovo progetto, in nuova maturità, oltre le intenzioni. La parola è qualche cosa che esiste già prima di noi e nel libro questa percezione è forte. «La poesia è il tutto rivelato nei frammenti», diceva il critico al suo amico poeta e ogni frammento deve fare i conti col tempo. La fugacità di ogni cosa incontra un lato magico, uno spazio che la cattura e la riconsegna «tesa a cogliere l’esistenza nella sua interezza». L’Unità poetica che rende fraterni Proust e Bertolucci è la trasfigurazione del contraddittorio bene/male, morte/vita, fugacità/pazienza in un movimento trasversale che anela alla grazia propria della parola. Questo moto della parola scioglie il grumo del «male di vivere» e riconsegna la Presenza al tratto naturale delle cose. Ogni «tremore si stempera in dolcezza». L’ombra lascia affiorare con «dolorosa chiarezza» la presenza della luce che illumina l’intero e si muove nell’aria per disegnare le forme della parola. La tessitura narrativa del mondo e del sentire è così colorata che «è la magia dei grandi pittori» (Proust), la stessa magia che, secondo Paolo Lagazzi, unisce la Recherche alla Camera da letto. Nelle due opere l’Assenza scandisce le sere della prima infanzia come ombra di madre che si allontana fino al ritorno sulla culla per «prolungare vita e amore». L’assenza procede per un dolore, una tristezza che infiamma e rende ancor più viva la Presenza ricca di vita, di passione e di calore. La «dolorosa chiarezza» dell’assenza non sarà «sufficiente a smorzare il bruciore di quell’ansia che resterà confitta per sempre nell’anima di Bertolucci». Così sarà anche per il narratore della Recherche.
È indubbiamente preziosa l’intuizione che Paolo Lagazzi coglie in quei «colli nevicati» come «specchio concavo di rara pregnanza» (limpida misura di Montale) che intreccia tre mondi: quello di Eliot che nella sua ricerca si abbandona alla divina volontà; quello di Montale che oscilla tra il possibile e l’impossibile luminoso di un altrove, oltre ciò che ci fa prigionieri; quello di Bertolucci viandante sui sentieri di Casarola che attraversa il destino «sino al gennaio inclemente, all’inverno delle ossa». E una prossima stagione si nutre quando «il sole d’inverno rade i colli nevicati». Allora il Canto di Simeone di Eliot tradotto da Montale si fa fine accordo di ogni stagione, di un «materno dolore» che nutre le rêveries dei tre poeti del Novecento, «alternativi alla linea simbolista», lirici e colloquiali. Il punto di partenza di questo libro è il rapporto con la parola che ci supera, va oltre le nostre intenzioni e ci sopravvive nel suo incontro ambivalente col tempo, nella sua visione estrema tra verità e bellezza, desiderio e destino.