Recensione di Sulla scia dei piovaschi
di Costantino Turchi
Quando si parla di poesia negli ambienti della critica più avvertita – quindi nei loro prodotti, tra i quali è sempre più presente l’antologia – da due decenni (se non di più) a questa parte, aggiungere alla poesia l’aggettivo lirica è come evocare un fantasma, come incorrere in un’eresia. È con la violazione di questo tabù che Davide Tartaglia e Edoardo Manuel Salvioni fondano la loro azione critica, e certamente partigiana, nella curatela dell’antologia Sulla scia dei piovaschi, edita da Archinto nel 2015. In questa sono raccolti dai due curatori i poeti lirici viventi più e meno noti (i nomi sono elencati in copertina secondo l’ordine di apparizione nel libro), presenti tutti nella scena della poesia italiana con una carriera affermata, e dove persino le Nuove voci sono state selezionate per avere all’attivo almeno due opere edite di poesia. Già in quarta di copertina il volume, snello per la quantità di materiale raccolto (ideale quindi per una fruizione diffusa), è presentato come una sfida, un’operazione in controtendenza al diffuso giudizio che vorrebbe il genere lirico postumo a sé stesso e spesso estraneo alla contemporaneità più vivida, dove invece alcuni critici vi riconoscono diritto d’appartenenza esclusivamente alle scritture più sperimentali o a cui abbiano concesso loro questa etichetta.
Le due citazioni – la prima di Pagnanelli, da cui prende titolo l’antologia stessa; la seconda di Villa – poste in apertura all’introduzione dai due critici, dichiarano subito l’impostazione programmatica del libro: Tartaglia e Salvioni contrastano direttamente l’idea di una letteratura – sia poetica, sia critico-teorica – come voce guidata dall’alto, tramite filosofie, manifesti, accademie e ideologie; e, contemporaneamente, intendono dare voce alla loro opinione costruita a partire dal confronto diretto coi testi poetici dell’ampio arco temporale scelto, siano essi qui presentati o meno.
Non a caso i primi strali sono scagliati contro le posizioni tenute dalla Neoavanguardia e dal Gruppo 63, identificati da Tartaglia e Salvioni (a torto o a ragione) come rappresentati estremi delle posizioni sconfessate dal primo postulato; sconfessione che si fa premessa per la definizione del «territorio condiviso» dai poeti raccolti. Questo territorio condiviso viene rinvenuto negativamente, ovvero per assenza di un «manifesto programmatico» o «retroterra di unità ideologica e politica», quindi come «riflusso storico» della stagione neoavanguardista. Ma è in questo perseguito antagonismo alla Neoavanguardia che viene evocato effettivamente un fantasma dell’antologia: a poco serve la dichiarazione, posta immediatamente dai curatori, per ripararsi e riparare l’opera da certe accuse, sicuramente ingiuste e che io non muoverò. Nei fatti, però, la descrizione che Tartaglia e Salvioni ci danno del fermento che sfociò nel Gruppo 63 e della loro produzione è sì strumentale, come vuolsi in una critica militante, per porre in risalto la continuità, il filo rosso della tradizione, che rinvengono dentro la lirica novecentesca tutta, e in particolare per evidenziare un sempre endogeno mutamento – «rivoluzione», termine che loro usano, mi pare azzardato – di questa attraverso i tempi; è una descrizione condivisibile in certe osservazioni sugli epigoni e i loro eccessi, sulla lotta per l’egemonia nel campo letterario (motivo per cui si fanno in realtà operazioni come questa stessa antologia o una recensione) e quindi sul farsi castrante accademia di ciò che doveva essere una rivoluzione; ma è anche una descrizione in buona parte risibile, nel migliore dei casi, per chiunque abbia avuto la minima dimestichezza con i testi della Neoavanguardia citati, letterari e non, e la loro portata – a poco basta, ancora, liquidare «La ragazza Carla» con l’aggettivo «splendido», ancor di più se ciò è fatto in sede critica.
Si parlava del filo rosso della tradizione che, secondo i curatori, attraversa l’intero Novecento, influenzando anche le generazioni di poeti presentate nell’antologia, perché non infranto dalla teoria e pratica della Neoavanguardia: forse sarebbe stato un approfondimento più dispendioso e più difficile da giustificare senza un buon bagaglio di esempi, ma credo che il modo in cui è stato trattato l’urto culturale del Gruppo 63 da Tartaglia e Salvioni sia in realtà controproducente al loro stesso fine, ovvero quello di fondare – questo a buona ragione – concretamente la raccolta di tutte le voci poetiche presentate sulla «inconscia «rimozione» del fermento della poesia sperimentale». La spinta esogena della Neoavanguardia nulla toglierebbe allo sviluppo endogeno, ovvero la ricalibrazione delle coordinate del poetare senza uscire dai propri orizzonti, della lirica dal 1956 – anno che per Anceschi segnò la nascita della nuova generazione letteraria – a dopo la fine del Gruppo 63; e se poeti come Giudici, Luzi e Sereni si rinnovano proprio in quest’arco di tempo; e considerando che lo sperimentalismo di Pasolini, negli stessi anni, ha le sue fondamenta nella sensazione, condivisa con i membri del Gruppo 63, di squallore provocata dalla letteratura italiana di quel periodo; il lungo silenzio poetico, interrotto solo dall’occasione della pubblicazione delle Xenia, di Montale sia significativo.
Dare il giusto peso a una spinta estranea e piuttosto dirompente, senza postulare influssi diretti nei testi, motiverebbe anzi più fortemente la posizione vissuta dai poeti antologizzati, nella loro carriera, davanti una scelta aut aut tra i due modelli generali, non solo ideologicamente e teoricamente, ma nei modi della poesia stessa, lirica e anti-lirica, concorrenti per l’egemonia nel campo della letteratura. Qui si ritrova fortunata la scelta di ordinare cronologicamente per anno di nascita (contrariamente al criterio che Mengaldo definisce «del floruit» e canonico dalla sua antologia, ma come già in Il miele del silenzio. Antologia della giovane poesia italiana curata da Giancarlo Pontiggia) i poeti antologizzati (alla faccia della morte dell’autore) coi loro testi. Attraverso quest’ordine è data al lettore la possibilità di mettere liberamente più in evidenza, grazie al supporto dell’introduzione, delle «schede poetiche», di una completa bibliografia delle opere di poesia – per autore e anno (mentre è inesistente nelle schede poetiche e scarsa nell’introduzione quella critica) – i possibili riferimenti che ciascuno dei poeti ha a sé presenti. Ovvero, viene data più evidenza alla formazione, ai testi – presenti o assenti dall’antologia – contemporanei a ciascuna opera dei poeti raccolti (e così alla loro scelta di poetica) più che all’interazione fra le varie opere da cui le poesie raccolte sono tratte. Volendo si potrebbe dire che questo è un buon modo per mantenere salda nell’antologia una serie di poeti – e le loro opere – che in realtà tra di loro ben poco hanno a che spartire; ma sarebbe un’ingiustizia perché, se probabilmente manca un dialogo manifesto tra ciascuna singolare poetica (ma non mancano accorgimenti tra alcuni di loro, come emerge dalle citazioni riportate nelle schede poetiche) ognuna di queste è decisamente definibile in un panorama lirico, vario sì, ma comunque in quell’alveo riconducibile attraverso le scelte metriche, ritmiche, lessicali e sintattiche personali di ciascun poeta – attraverso l’analisi di chi di queste scelte si occuperebbe.
Nel libro Sulla scia dei piovaschi probabilmente lo spazio era troppo esiguo per uno spoglio, uno studio e un approfondimento minuzioso; forse si è preferito dare più spazio possibile al numero di poeti e poesie da presentare, tenendo il volume il più agile possibile; offrire, con il libro, uno spazio di confronto diretto con le poesie al lettore, lasciando al suo interesse la fruizione delle opere complete e l’analisi approfondita. Non c’è da dimenticare l’identificazione di un «Grande Stile», un canone, come fine di questa antologia: di ogni poeta abbiamo, nella propria scheda, la descrizione tramite rapidi bozzetti delle raccolte e delle ragioni di queste, il loro stile e i mutamenti di questo, a cui fa da contraltare la parte seconda dell’introduzione. Lì ognuno dei poeti è presentato nel momento del suo esordio, nella dimensione più fluida dell’«avvenimento della poesia» nella storia, rinvenendo non sistematicamente i tratti che àncorano l’esperienza di ciascun poeta alla tradizione lirica; emerge qui, fra tutti i tratti, la caratterizzazione dell’io lirico e del suo rapporto con il reale, spesso attraverso un “tu”, di ciascun poeta. Sempre nell’introduzione è valida, dopo aver illustrato gli antecedenti e dopo aver dedicato uno specchio – breve ma accurato – alla poesia dialettale esclusa dall’antologia, la trattazione degli elementi aggregativi del panorama presentato, come riviste e antologie quali Niebo e La parola innamorata nella fluida descrizione di quegli anni. Peccato che, non essendo presenti note bibliografiche dove sarebbero state opportune, sia nell’introduzione che nelle schede, non possiamo sapere se la disamina sia frutto di un primo spoglio di tutto questo materiale (nel cui caso andrebbero dei complimenti sinceri ai curatori) oppure no.
Se al primo impatto l’antologia può sembrare una raccolta simile a quelle che ci hanno tramandato la poesia romanza medievale, con vite e ragioni dei poeti, redatta però da una critica improntata sul senso comune odierno – cioè senza seguire un metodo o teoria analitica particolare – e non scevra a volte da impressionismi o dall’uso di categorie astratte che possono risultare tanto ambigue per i mestieranti quanto opache per il lettore comune non meno di altri tecnicismi, questa antologia partecipa al contemporaneo presentando una collezione la quale autenticità del novero è fondata sul dialogo, diretto e originale, di ciascuno degli autori con una tradizione urtata ma mai completamente interrotta.