L’età bianca: l’incontro tra eros e morte

Alessandro Moscè

Alessandro Moscè, con il suo secondo romanzo dal titolo L’età bianca (Avagliano 2016), compone un dittico che si lega imprescindibilmente all’altro, il fortunato Il talento della malattia, sempre edito da Avagliano quattro anni fa, e che è giunto ormai alla terza edizione. Questo appena dato alle stampe è il libro dell’adolescenza e della maturità, mentre l’altro era il preambolo dell’infanzia come modello insostituibile, della malattia, di un percorso di crescita complesso.

Come del resto, nella prosecuzione di un viaggio esistenziale accidentato, può definirsi anche L’età bianca. Ma stavolta, dopo la guarigione, subentra l’amore, la voglia di ricominciare con una nuova pelle. Se la malattia aveva segnato lo scrittore fabrianese con un’esperienza del tutto particolare e dagli esiti clinici incredibili, insperati, l’amore è un sentimento comune che unisce le storie di tutti in un unico involucro. “L’amore non può nascere che dall’oscuro desiderio che è in noi stessi di ripetere le sconfitte infantili. L’amore comincia quando ci accorgiamo di aver sbagliato ancora una volta”, scriveva Ennio Flaiano. Questa massima sembrerebbe attagliarsi perfettamente alla narrazione di Moscè, perché la giovanissima Elena, in effetti, è un amore sbagliato. Sarà solo dopo trent’anni, nel segno di una breve trasgressione che la ragazza diventata donna si donerà, nient’altro che per il piacere e il pericolo di ripercorrere l’adolescenza, la spensieratezza, un’età all’incontrario, che retrocede ad un principio di scoperta.

Non sappiamo quanto L’età bianca, che sancisce appunto un’età imperitura, orgogliosa perché trasparente e non condizionata, trionferà per sempre nella giusta equidistanza con un passato indelebile. Ma sappiamo che vale la pena non nascondersi più, anche a costo di soffrire per un eccesso di ingenuità. Moscè, in chiave autobiografica, si confessa, racconta ad Elena di sé, del sarcoma di Ewing che ha sconfitto, dell’amore per il calcio, per il mito Giorgio Chinaglia, per la seconda volta figura centrale dopo che lo era stato anche ne Il talento della malattia. Il campione irriverente che aiutò il ragazzino a superare lo sconforto per la malattia, è una specie di portafortuna, un’icona laica. Ha dichiarato Alessandro Moscè in una recente intervista, di aver scritto una novel non fiction. Dopo trent’anni instaura una complicità sentimentale che prende il sopravvento. Torna con Elena nell’ospedale dove da bambino ha rischiato di morire, come fosse una resa dei conti con il destino. Tra la seduzione dell’adolescenza e suoi tormenti, la reticenza nel mettersi a nudo, il timore di dire, la forza della scrittura e la conoscenza di grandi poeti contemporanei come Mario Luzi, nella memorabile cena in un ristorante di Senigallia, si snoda un romanzo dai toni sartriani. Allo stesso tempo l’autore percorre l’Italia degli anni Ottanta e Novanta in cui è possibile riconoscersi, con fatti che scossero l’opinione pubblica: il rapimento di Emanuela Orlandi e l’errore giudiziario di cui è stato vittima Enzo Tortora. Ma L’età bianca è anche un romanzo sulla morte, sulla finitudine umana: la grande ossessione di Moscè, che sembra esorcizzare con l’eros il punto più alto della sua rivelazione e della sua bella scrittura. L’eros è una categoria esistenziale, così come il suo esatto opposto, la morte appunto, un “essere-male” da respingere, di cui disfarsi con tutte le energie di cui si dispone. L’età bianca e ogni scritto di Alessandro Moscè, risultano un incontro estremo e radicale con persone e ambienti, con miti e affetti familiari. Un romanzo riuscito, affilato, impudico, fuori dell’ordinario. Un altro salto di qualità nell’ormai ricca produzione letteraria del critico, poeta e narratore marchigiano.

Elisabetta Monti

 

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