di Elisabetta Baleani
Con l’acume tipico del conservatore, Churchill, tra un Johnny Walker e un Romeo y Julieta, battezza “la democrazia come la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre forme sperimentate”, che si sono rivelate decisamente peggiori e la Costituzione Italiana, figlia della Resistenza, ma anche della tradizione liberale, sancisce una solenne rottura con il passato, sposando l’ideale di una Repubblica democratica basata sul parlamentarismo.
Andrea Benci, alias Umberto Piersanti, il protagonista di “Cupo tempo gentile”, attraversa il nostro tanto rosso quanto ambizioso e velleitario ’68, come l’epigono isolato e scomodo di una cultura di cavouriana-einauidiana memoria a cui in realtà, o perché poco nota, o perché in posizione di netto svantaggio rispetto a facili slogan di destra o di sinistra, molto devono i pur imperfetti ma comunque operativi principi di libertà, di cui gode oggi quella parte di mondo che può, proprio per questo, definirsi civile. Andrea Benci è come gli altri, un giovane che vuole cambiare le cose, o meglio, alcune cose, ma, a differenza degli altri, non condivide né i mezzi né poi tutti i fini del movimento di cui pure fa parte, più per ragioni sentimentali che non ideologiche; per lui, convinto antimachiavellico, la rivoluzione non può prescindere dalle modalità attuative, importanti, anzi dirimenti, né può promuovere una dittatura, anche se del proletariato, perché, quando vince l’autoritarismo, la prima a morire, è la libertà. E se corrisponde al vero che la maggior parte dell’intelligentia italiana si è storicamente contraddistinta per la clamorosa sbornia del ’68, non va tuttavia dimenticato che alcuni –pochi per la verità-, e tra i pochi lo stesso Pasolini, a cui Andrea/Umberto fa riferimento soprattutto come poeta, non mancarono di denunciare gli scontri di Valle Giulia tra studenti e poliziotti, prendendo netta posizione a favore di questi ultimi. In tale clima infervorato, Andrea intravede immediatamente il dispotismo di capetti quali Cavani o Vanni, che si rivelano carismatici non per il valore intrinseco dei propri convincimenti, che poi tanto propri non sono perché è gente questa, che comunica esclusivamente per battage di terza classe, ma che è tuttavia ben portata ad alzare l’audio, come se a sì portentoso volume possa poi corrispondere sì portentosa dottrina; perché, se un popolo si trova ad avere a capo siffatti coppieri, per dirla con Platone, in mezzo a tanta licenza non può non dispiegarsi la mala pianta della tirannia, come ben hanno dimostrato le dittature di ogni colore.
Dispotismi spesso sacrificati da Andrea sull’altare di generose alcove, con gaudenti sortite decisamente migliori di simil cervellotico ribelle argomentare. Così, lento ma inesorabile e dunque necessario, matura il distacco tra Andrea e il movimento; lo studente, prossimo alla laurea su Montale –considerato dai suoi compagni un poeta decadente, al pari di Leopardi, quindi quanto di più disutile alla rivoluzione-, di fronte alla terribile evidenza della violenza (il romanzo fa un esplicito riferimento alla morte del poliziotto Antonio Annarumma e allo scampato rogo, presso l’Università di Urbino, di quattro studenti fascisti, o meglio definiti tali perché, del tutto legittimamente, intendono usufruire delle sessioni di esame), il ragazzo diventa uomo e fa propria, ormai con chiarezza e senza mezzi termini quell’onestà intellettuale e quella coscienza civile che lo avevano sempre distanziato dai compagni e per cui in precedenza era stato bollato come molesto revisionista. Egli infatti non aveva omesso di evidenziare, durante le assemblee, le innumerevoli manchevolezze della adoratissima madre Cina, nonché l’ingombrante presenza dei gulag stalinisti, dove si sono consumate le colpe degli oppositori e, ancora, menda forse ancor più imperdonabile, quella che Vaclav Havel, in “Il potere dei senza potere”, ha definito come “vita nella verità” in opposizione alla “vita nella menzogna” e a cui si sono attenuti i pochi o tanti Jan Palach che hanno pagato con la morte il proprio dissenso. E certo, nel ’68 il fatto di essere “per la Resistenza, ma anche per la verità” rende Andrea impopolare, imbarazzante, se non proprio sgradito, laddove la legge è costretta a tacere in tempi di sì ragguardevoli tafferugli e l’integrità intellettuale è rara e preziosa come gli amati favagelli del nostro protagonista, che, tra gli altri inammissibili difetti, ha anche quello di un indiscusso amore per la natura e la bellezza; fiori e paesaggi che, in una sorta di estatico potere terapeutico, lo ammanettano alle amate Cesane, dove si canta in modo più gentile, in un processo di sintonizzazione con il Montefeltro, sua patria poetica.
Insomma, per Andrea/Umberto l’uomo, e quindi il cittadino, va inteso come cives nella dimensione “arendtiana”, cioè nel suo differenziarsi dall’animale per assurgere alla nobile dimensione della politica, la quale, o è nobile, o non è. D’altra parte è lui stesso a proclamarsi “illuminista”, con ciò appellandosi all’utilizzo della ragione intesa in senso kantiano quale “uscita dell’uomo dallo stato di minorità”, dunque come pensiero autonomo, capace di autodeterminarsi e perciò di scegliere, in maniera consapevole quindi responsabile, tra il bene e il male, il giusto e l’ingiusto. Che è poi la stessa autonomia di giudizio che egli cerca, come professore alle prime armi, di insegnare alle allieve: non la nozione, ma il senso critico. Che è poi, ancora, la stessa battaglia che egli combatte e vince interpretando il sano principio di realtà che costringe un preside reazionario a reinserire a scuola un’allieva espulsa perché incinta.
Perciò, il tempo di Andrea/Umberto non è e non può essere quello della rivoluzione, che, come recita il famoso adagio di Mao “non è un pranzo di gala, non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo”, né, e questo è il punto, “la si può fare con tanta gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità”, per il semplice fatto che essa è, invece, “un atto di violenza”. Al contrario, il tempo di Andrea/Umberto è quello meno cupo e più gentile, in cui possano finalmente realizzarsi l’amore e la poesia, in completa dissonanza d’intenti con chi, per apprestare terreno alla gentilezza stessa, reclama brechtianamente che “noi non si poté essere gentili” e secondo cui, in netto contrasto con la sensibilità del protagonista, “discorrere d’alberi è quasi un delitto”; infatti e non casualmente più volte nel romanzo si leva la voce del nostro a difendere la sostanziale autonomia dell’operare artistico, che non può e non deve essere asservito a nessuno scopo, tanto meno alla politica, perché la bellezza è fine a se stessa e “una poesia può raccontare la mia emozione più lontana e segreta, il passaggio di una nuvola, un fiore che viene su dalla terra”.
Una lezione dunque di civiltà e di umanità, quella di Piersanti, alla ricerca di un equilibrio difficile, ma possibile, tra istinto e passionalità, memoria storica e modernità.