Leggendo Pasta madre
C’è una fascinazione in Pasta madre che mostra e fa vivere il perché della scrittura. Ad ogni passo lo svelamento di significati, ma ancor più di esperienze, costruisce un luogo dove è possibile la nudità dell’essere. Perché in queste pagine, il corpo che qui respira e palpita, è il corpo stesso della vita, che trova nella scrittura il suo linguaggio, il suo testimone. In queste pagine si entra con difficoltà, ma con difficoltà poi se ne esce. Se ne si è capaci.
«Quanti animali migrano in noi / passandoci il cuore»: questa traiettoria basta a disorientare, con la stessa capacità con cui ti fa sentire di farne parte. È un volo che si respira. I polmoni: il cielo.
La presenza animale è costante in questa scrittura, come invito, ma anche allarme, dell’istinto. Un istinto primordiale.
Qualcosa rende la materia di Pasta madre perduta, forse una forma di custodia, di protezione vissuta con il garbo di un tempo passato.
E allora, che fare? La «foglia / che impara dagli uccelli / e per pochi istanti vola». Forse è tutto qui, in questo coraggio. Aprirsi alla vita fa male. Ma l’apertura permette di nuovo il respiro. L’esperienza a cui si è invitati è totalizzante, assoluta, non ammette repliche né rinvii. Guarda tu qualcosa che ha che fare con la vita. Quando si stacca dal ramo e diventa se stessa.
Fra le pagine scritte ce ne sono alcune vuote. Il silenzio di queste pagine bianche rimanda a noi, alla nostra volontà di riprendere il tempo, di creare pensiero. Questo libro permette a chi lo legge di ritrovarsi, non in una totalità rassicurante, ma nello specifico che ci caratterizza, nella nostra unicità di esseri umani. Pasta madre ci guida a ripartire dalle domande e dalle semplici constatazioni di quando si aprono gli occhi, e il cuore, al vivere. È proprio questo vivere che qui, pagina dopo pagina, si sfilaccia tra le dita di chi scrive, permettendoci di appartenere al nostro essere.
Questa poesia va in avanti, procede per crescita, mostra la crudeltà di sapere che non si torna indietro.
Ma di cosa è fatto Pasta madre? Non è facile saperlo, ma si può percepire il suo muoversi, verso dopo verso, verso nel verso. Questa scrittura è capace di togliere il superfluo, fino a raggiungere il nervo scoperto del nostro essere. A volte fragile, a volte forza coinvolgente.
L’esperienza di questo scrivere è un cercare che si espone: ogni cosa, in modo rigoroso, fino a una verità che diventa necessaria.
C’è qualcosa che stordisce in questi versi. Arrivano dove ci si sente più indifesi. Guidano a sentire la spinta primordiale e la fragilità dello stare al mondo. Un passo successivo al precedente, senza paura. Perché c’è un amore che ci guida, che sa «dove andavano le vene».
Giovanni Fierro
da Pasta madre (Nino Aragno, Torino 2013)
cucchiaio nel sonno, il corpo
raccoglie la notte. Si alzano sciami
sepolti nel petto, stendono
ali. Quanti animali migrano in noi
passandoci il cuore, sostando
nella piega dell’anca, tra i rami
delle costole, quanti
vorrebbero non essere noi,
non restare impigliati tra i nostri
contorni di umani.
*
un colpo di fucile
e torni a respirare. Muso a terra,
senza sangue sparso.
Cose guardate con la coda
di un occhio che frana
mentre l’altro è già sommerso, e tutto
si allontana. Gli alberi
si piegano su un fianco
perdono la voce in ogni foglia
che impara dagli uccelli
e per pochi istanti vola.
*
padre e madre caduti
frutti che non potevano
marcirmi attaccati
mentre nudo imparavo
a reggere il cielo
come un uccello sul dorso, lasciando
campi e case affondare.
L’azzurro torna
a coprire la terra. Trattengo
nel becco il ricordo,
il seme che sono stati.