Alessandro Moscè, con Galleria del millennio. Viaggi letterari 2004-2014 (Raffaelli 2016) ha riunito, organicamente, i suoi interventi critici scritti da dieci anni a questa parte su giornali e riviste specializzate (“Il Tempo”, “Prospettiva”, “Poesia” ecc). Un lavoro diverso dal solito, perché il poeta, narratore e saggista marchigiano, ci aveva abituati al taglio lungo, ad una corposa rappresentazione “della scrittura in seconda”, appunto di stampo critico, occupandosi del secondo Novecento (ricordiamo in particolare Luoghi del Novecento, uscito per Marsilio nel 2005). Stavolta, attraverso una ricognizione concisa ma ben articolata, severa, percorre il terzo millennio occupandosi di giganti come Pasolini e Moravia, fino ad arrivare ai poeti nati negli anni Sessanta (Rosadini e Rondoni). Il viaggio realizzato si caratterizza per una direttiva unificante dove Moscè opta per una soluzione inequivocabile: sceglie la tradizione e rigetta l’avanguardia. Ci scorre davanti una serie di nomi tutelari: Siciliano, Garboli, Citati, Raimondi, Cordelli, Brevini, Berardinelli, Lagazzi, Volponi, Guerra, Fellini, Tondelli, Maraini, Magris, Cerami. E poi i critici più giovani come Manica, Onofri, Raffaeli, Colasanti, Bertoni, Giglio. I narratori sono, tra gli altri, Bevilacqua, Celati, Pazzi, Claudio Piersanti, Albinati, Tamaro, Trevi, Lodoli, Desiati. I poeti chiudono il sipario: Gatto, Luzi, Bellezza, Bonnefoy, Walcott, Heaney, Rosselli, Umberto Piersanti, Cucchi, De Angelis, Magrelli.
I libri letti da Alessandro Moscè hanno una nota comune che li mette insieme in un vero e proprio alfabeto di lettura: lo spiega lo stesso scrittore nella presentazione. “La letteratura è racchiusa in un caleidoscopio di soggetti, scenari, ambienti, atmosfere, squarci, affreschi, in uno stile che metabolizza l’umano escludendo una prassi gergale, misurata a tavolino, di stampo sperimentale”. Viene citata un’opera fondamentale, Letteratura e vita di Carlo Bo, saggio pubblicato nel 1938 sulla rivista “Frontespizio”, in cui si evidenziano le ragioni della poesia ermetica, gli strumenti di ricerca e quindi di verità: mezzi necessari per sapere qualcosa di noi. La storia è attraversata nella posizione prospettica del singolo, corroborando un parere, un’osservazione, un sentimento. Colpiscono i due capitoli riservati a Pier Paolo Pasolini. “Non c’è un altro intellettuale italiano che abbia messo in crisi la critica novecentesca come Pasolini”, osserva Moscè. La verità del poeta friulano appare impressionante per il coraggio di dire la verità senza fare sconti, “con una convinzione priva di vincoli, viscerale e analiticamente contro un sistema preordinato e conforme”. La forza dell’uomo ambivalente si concentra nell’essere cristiano laico e marxista, colui che sperimenta e l’umanista che conserva la forza della passato. La dualità corpo/storia fa il paio con l’avvertimento dell’innocenza e del dolore dei poveri, così come con l’ipocrisia e la corruzione borghese. Precisa Moscè: “La civiltà dei consumi è ancora, ovviamente, una civiltà dittatoriale che finisce per costruire consensi. Nel frattempo gran parte degli intellettuali italiani sono rimasti a guardare, non hanno contrastato la finta espressività degli slogan e, per dirla con Pasolini, una visione magmatica del futuro, di un mondo da pensare in modo diverso. Abbiamo ancora bisogno di più singoli e di meno gruppi, politici e non, di destini diversi che non ci sono stati, come quello del più grande intellettuale italiano del Novecento”.
Il male di esistere è un comun denominatore di molti scrittori presenti in Galleria del millennio: Moscè lo individua nelle opere di Alberto Moravia, specie le ultime (imperniate sulla fantasessualità); nei fantasmi di Enzo Siciliano; nell’utopia di Paolo Volponi; nelle case che crollano di Gianni Celati. E ancora nella foga e nella disperazione di Dario Bellezza; nella preghiera di Vincenzo Cerami; nella morte senza un fine di David Grossman; nella nausea dei sensi di Paolo Dal Colle. I luoghi sono un altro aspetto singolare di questa indagine: reali e naturalistici in Luigi Bartolini, Tonino Guerra, Alberto Bevilacqua, Claudio Magris e Umberto Piersanti. Luoghi urbani in Edoardo Albinati, Marco Lodoli, Emanuele Trevi e Sandro Veronesi. Luoghi immaginifici in Roberto Pazzi, Ermanno Cavazzoni e Ugo Cornia. Luoghi di un quadro compositivo visionario nel poeta Remo Pagnanelli, appassionato di lari e figure semidivine. Moscè si occupa di Marc Augé, dello spazio infinito e del mondo globale che fissano il tempo morto nella relazione di nonluogo della società. Spiega: “L’antropologo, come lo scrittore, contribuisce allo sforzo di lucidità di cui oggi l’uomo ha bisogno più che mai, se davvero vuole dichiararsi totale e non più globale”.
La visione cristologica di Mario Luzi e Giorgio Saviane offre una testimonianza dell’eterno. Di Saviane emerge il tentativo letterario di parlare con Dio, di credere nell’indeterminatezza del tempo. Affiora, in alcune analisi, il corroborare la versione umanista con la conoscenza scientifica, come per le molecole escapers che permetterebbero di raggiungere un’età avanzata senza malattie di rilievo. Alcuni scrittori riescono a fondere due realtà parallele, a farle dialogare, a tracciare punti di contatto. Quindi emergono figure isolate, fuori da un contesto ben classificabile. Il francese Philippe Forest vive nel regno dei finali drammatici, ma il paradosso è che occorre accettare l’esperienza del male per toccare il senso vero della gioia e dell’amore. “Il lungo anno in cui morì nostra figlia fu il più bello della mia vita”, sancisce in Tutti i bambini tranne uno (Alet 2005). Una frase così, la può dire solo un padre sfacciatamente innamorato, disperato, inerme, sarcastico. Forest racconta la vita e la morte della figlia Pauline dal primo all’ultimo giorno. La intreccia e la fonde con la storia della letteratura, sapendo che il decesso di un bambino, o un’altra fine altrettanto crudele, è diventata qualcosa che si dimentica nella vita di tutti i giorni al punto che bisogna ricordarla sotto forma di racconto. L’italianista Ezio Raimondi rileggeva lo stesso libro anche dieci volte, convinto che la lettura non sia un monologo, ma l’incontro con un altro uomo che nel libro ci rivela qualcosa della sua storia più profonda e al quale ci rivolgiamo nello slancio intimo della coscienza affettiva. Italo Mancini, sacerdote, specificava che la teologia parla con Dio e la religione avverte la presenza divina nell’esperienza. “La rivelazione, la storia e l’annuncio della parola si interiorizzano attraverso la bocca dell’uomo”. Viene soppesata anche la poesia di Karol Wojtyla, Papa Giovanni Paolo II. Trittico romano (Editrice Vaticana 2003) comprende versi scritti nella residenza estiva di Castelgandolfo. La raccolta proponeva, al fianco del testo italiano, alcuni passi dell’originale manoscritto in lingua polacca. Osserva Moscè: “Oltre al Papa poeta, stupito dinanzi al Creato, alla Cappella Sistina, alla forza e alla trasparenza di Dio, si esprime il Papa impegnato nel suo ruolo di messaggero e pellegrino di Dio”.
E’ presente anche una sezione dedicata alle interviste. Una di queste al regista Pupi Avati che ha dato alle stampe la sua autobiografia La grande invenzione (edita da Rizzoli nel 2013). Alla domanda sul suo rapporto con la fede, risponde: “E’ difficile spiegarlo. Ci sono persone che ho visto nascere nel dolore, senza relazioni, senza amori. Non posso pensare che vivranno sempre così. Inoltre non ho la capacità di pensarmi morto. Nella mia stanza a Roma conservo una parete con almeno cento piccole fotografie di tutte le persone care. La chiamo la via degli Angeli, dove abitava mia madre, e ahimè, le foto sono destinate ad aumentare. La sera, prima di andare a letto, le guardo e loro guardano me”. Quindi il grande poeta siriano Adonis, ospite a Fabriano, la città dove Moscè vive, nel 2005, il quale specifica: “L’Occidente ritiene che la civiltà araba sia arretrata. Questa concezione cambia solo quando gli occidentali vengono a contatto con gli intellettuali arabi, specie con i letterati. La gente comune vede il mondo arabo intriso di terrorismo e di violenza, di sistemi dittatoriali. Certamente se i Paesi arabi avessero dei regimi democratici sarebbe più facile instaurare un dialogo interattivo”. In Galleria del millennio il pretesto, complessivamente, non è certo quello di stilare una graduatoria o di indicare una formula programmatica nel vasto e controverso contesto letterario di un decennio. Gli incontri con alcuni maestri di via, l’impatto con voci individuali e con libri letti occasionalmente, hanno fornito l’opportunità di identificare un flusso percettivo che si oppone alla persuasione delle arti audiovisive e all’egemonia di una comunicazione massiva, mediatica e asettica. La letteratura che Alessandro Moscè segue e sulla quale indaga da anni è la letteratura dell’esperienza, che consente ancora di addentrarsi nella crisi del mondo globalizzato e insieme di conoscere gli autori e il loro universo mediante la parola del reale e il senso del vero, nonché nel bisogno di fare forma e colore alle cose. Tahar Ben Jelloun, scrittore franco-marocchino, ha dichiarato a chiare note che lo scrittore deve essere pronto a mescolarsi tra la gente, a farsi comprendere, a dare impulsi per trasmettere qualcosa di illuminante, ritenendo che spesso il solo capitolo di un libro è più incisivo di una miriade di discorsi fatti dai politici e dalle istituzioni. La letteratura rimane dunque un mezzo nobile per raccontare i destini.
Elisabetta Monti
2 commenti a “Alessandro Moscè e la letteratura dell’esperienza”