I postini, come le guardie giurate o i commessi dei negozi, sono depositari di verità personali, conoscitori dell’identità di un popolo, di un paese, di un quartiere, di usi e costumi perduti e ritrovati in pochi soggetti che sembrano avanzare dal passato, da un’arcaica esistenza sconosciuta ai più. Registrano e guardano, si accorgono, dice Angelo Ferracuti, il quale con un reportage dal titolo Andare Camminare Lavorare (Feltrinelli 2015), ha percorso l’Italia alla ricerca di una ricreazione antropologica degli abitanti e di una morfologia del territorio, coadiuvato dai portalettere che gli hanno indicato vizi e virtù della gente, storie trasmesse oralmente e aneddoti curiosi, geografie e posti riservati.
Come all’inizio del viaggio, in Valle d’Aosta, a Chamois, dove il portalettere, una volta, saliva sulla mulattiera e ora va in funivia per consegnare le raccomandate ad anziani che posseggono ancora il bestiame. Si respira un’aria diversa in Piemonte, a Torino, nella Mirafiori sud, dove fino a pochi anni fa l’Italia laboriosa arrivava dal meridione e andava a lavorare alla Fiat. Oggi questi operai sono stati espulsi dalla fabbrica e il postino deve consegnare loro avvisi di garanzia ed esposti di Equitalia. Dalle parti di Predazzo, in Trentino, Ferracuti, accompagnato da un esploratore selezionato, si lascia andare alla descrizione paesaggistica e naturalistica nel “giardino geologico delle Alpi”, tra rocce, minerali, fossili, conchiglie che vissero prima dei dinosauri. Ed ecco i “compatti fortilizi”, le Dolomiti, un intrico di guglie e spaccature, di dirupi e pilastri, di abeti che servono per costruire chitarre e pianoforti, violini e Stradivari addirittura dal Seicento.
Milano è la città dove si lavora con la sartoria e la moda, il design, un universo dove l’occupazione ha percentuali da agglomerati tedeschi. E’ cambiata la Liguria di confine, dove a Ventimiglia arrivano i profughi dall’Africa in cerca di una sistemazione provvisoria per raggiungere la Francia e la Germania. Sono eritrei, somali, sudanesi. A Genova, introdotto dal postino tuttofare, Ferracuti si è trovato in un grande budello dove giovani trafficanti e vecchie prostitute sogghignano tra i vicoli notturni. Lo scrittore è un reporter attento ai dettagli, che prende appunti e fotografa, che si informa, da corrispondente, direttamente sul luogo. Ferracuti ha il merito di aver pianificato l’Italia dandole una connotazione caratteriale, pulsionale. Come Guido Piovene, ha censito i luoghi nelle peculiarità terrigene, fino ad arrivare dove l’umanità è più forte, come all’Hotel House di Porto Recanati, nelle Marche. Il portalettere ha a che fare con quattrocentocinquanta cassette, tre ali, diciassette piani e un fondale di extracomunitari non schedati spesso dediti ad attività illegali. Cambia lo scenario nel Parco Naturale dei Sibillini quando si incrociano caprioli, lupi, astori, cinghiali, aironi e cicogne, o a Castelluccio di Norcia imbattendosi nei postini, che in inverno si spostano con gli sci e gli zaini in spalla.
Roma è tante cose insieme, ma la si sonda specie in periferia, nelle ex borgate del sottoproletariato pasoliniano dove è stata conservata un’anima popolare, a differenza di via Condotti. Qui lo stile delle vetrine fa il paio con il turista “mordi e fuggi” che guarda e non compra. Napoli è una città nella città: “A volte ti senti calato in una condizione d’iperrealtà, come certi quadri pop più veri del vero, e tutto è veloce, cinetico, pieno di energia che ti trascina”. A Castel Volturno la desolazione e la malavita si perdono in un labirinto di vie, in una periferia “imbarbarita e inselvatichita”. In Molise si ricorda la transumanza, il passaggio delle mandrie e una rievocazione che vede qualche macedone impegnato in una vecchia pratica, così come in Basilicata, in una terra brulla e argillosa, dai calanchi sabbiosi dove tutto sembra deserto. Matera è un “presepe a cielo aperto”, una città di pietra con pavimentazione a roccia levigata, improvvisamente diventata di moda; Taranto una città dagli edifici fatiscenti con il “bubbone” dell’Ilva che ha contaminato perfino i cavalli e le galline. “L’Ilva è costata 11.000 morti per cause vascolari e respiratorie secondo le perizie della Procura della Repubblica”. A Palermo fanno la vita alcune donne dell’est la cui caratteristica è di mettere le candele fuori della porta per far capire ai clienti quando sono libere. In Sicilia, a Nicolosi, l’Etna è una testa di animale, qualcosa che come ricordava lo scrittore Vincenzo Consoli appartiene ad un tempo atavico. Angelo Ferracuti ha scritto un libro di getto, ma ne ha intuito lo scopo. Non di far conoscere l’Italia, ma di sondare gli spaccati di una comunità resistente. E’ la brezza della memoria che si alza tra oggetti e volti, alberi, fiumi, mari e montagne. Non c’è un tentativo folkloristico di rappresentare il mondo in superficie, ma semplicemente di testimoniarlo dalla viva voce di chi lo conosce bene, dall’interno. L’osservatorio del portalettere è un patrimonio di vicende, un rotocalco da serbare, un’inchiesta onesta sulla ferialità italiana del nuovo millennio, dove la crisi economico-occupazionale ha uniformato perfino le riflessioni.
Alessandro Moscè