di Davide D’Alessandro
Prendetevi qualche minuto di pausa, lasciate ogni incombenza e andate a leggere Giovanni Raboni. Le sue “Canzonette mortali”, scritte pensando alla compagna Patrizia Valduga, dicono della poesia e di un incanto, dell’incanto della poesia. È la stessa Valduga a recitarle (basta andare su youtube) a oltre dieci anni dalla scomparsa di Raboni, poeta autentico e finissimo. “Le volte che è con furia che nel tuo ventre cerco la mia gioia è perché, amore, so che più di tanto non avrà tempo il tempo di scorrere equamente per noi due e che solo in un sogno o dalla corsa del tempo buttandomi giù prima posso fare che un giorno tu non voglia da un altro amore credere l’amore. Un giorno o l’altro ti lascio, un giorno dopo l’altro ti lascio, anima mia. Per gelosia di vecchio, per paura di perderti – o perché avrò smesso di vivere, soltanto. Però sto fermo, intanto, come sta fermo un ramo su cui sta fermo un passero, m’incanto…”. La poesia è arrivare sul punto più alto della montagna, sfiorare il cielo con tutto te stesso e ripensare a quando, fermo ai suoi piedi, temevi di non farcela. La poesia disseta, rigenera, disvela misteri. Talvolta, però, la poesia è la denuncia di un dolore atroce e aiuta a morire. Prepara la morte. Ma non è lei che la dà. Rende solo meno amaro il finale. Lenisce l’ultima pena.