Giorgio Saviane, nato a Castelfranco Veneto nel 1916, morto a Firenze (la sua città d’adozione) nel dicembre del 2000, può considerarsi solo erroneamente un minore della narrativa italiana secondo-novecentesca. In realtà è stato e rimane uno degli scrittori più complessi e significativi. Dopo anni di colpevole silenzio dell’editoria italiana, Guaraldi, grazie all’impegno della moglie Alessandra Del Campana, ripubblica degli stralci di quattro romanzi di successo: Il Papa (1963), Il mare verticale (1973); Getsèmani (1980) e Voglio parlare con Dio (1996). Saviane viene rivisitato in un romanzo autonomo, Mio Dio (2014), che ne racchiude ben quattro. Raggiunse il successo di pubblico (Eutanasia di un amore vendette un milione di copie a partire dal 1976) e una confluenza di giudizio esaltante di critici niente affatto indulgenti come Natalino Sapegno, Carlo Salinari e Geno Pampaloni, soprattutto perché pose al centro della sua produzione letteraria affascinanti tematiche filosofico-religiose con l’assillo della tenuta psicologica, azzardata. Un caso pressoché unico quello di Giorgio Saviane: gli americani lo definirono “il narratore di idee” del romanzo europeo.
Ripercorrendo a ritroso tutti i libri che ha pubblicato, in un arco temporale che va dal 1957, con Le due folle, al 1996 con Voglio parlare con Dio, l’utopia consapevole appare un concetto onnipervadente. Non è forse utopia cercare di scalfire, come avvenne ne L’inquisito, la convinzione che un imputato sia già colpevole e condannabile per l’opinione pubblica? Non è utopia voler evitare l’infamia pubblica anche se l’imputato viene assolto da un reato di omicidio attribuitogli per errore? E ancora, non è utopia pensare che proprio l’errore giudiziario sia eclissabile per una giustizia superiore? Saviane sapeva di cozzare contro un mondo dalle regole sociali predeterminate, per questo difese il valore di vittima nel significato morale della parola (non dimentichiamoci che era avvocato di professione). Inquisito fu perfino Gesù, diceva, e la storia ci ha consegnato Galileo Galilei, Girolamo Savonarola e Giordano Bruno. E’ utopia, certamente, cercare di insegnare Dio “attraverso le stelle”, come nello splendido romanzo Il Papa, ribaltando, nelle convinzioni di un sacerdote coraggioso, ordinato sul soglio pontificio, concetti tradizionali di ogni religione oppressa dalla paura e dalla solitudine. E’ utopia proclamare attraverso le parole di un Papa, la negazione dell’inferno e una fede che ponga al centro del suo credo l’uomo. Il Papa fu il romanzo che pose all’attenzione di un farraginoso dibattito culturale questo scrittore dalla forza spirituale e immaginifica, del tutto fuori dalle correnti di pensiero dell’epoca (eravamo agli inizi degli anni Settanta).
E che dire di Eutanasia di un amore, dove Saviane parla della madre, che non dovrebbe essere una madre biologica, cioè solo la madre del proprio figlio? La natura ha fornito le difese egoistiche per sottrarre il figlio dalle insidie naturali, ma se una madre fosse madre di tutti i figli, come nell’archetipo della terra-madre, avremmo un valore squisitamente culturale da conferire alla vita, non più solo simboli, ma vere e proprie scelte esistenziali. E non è utopia immaginare la reincarnazione e il ritorno di Gesù nel romanzo Getsèmani, che confermò radicalmente la tensione religiosa dei romanzi? Non è utopia far compiere un miracolo al protagonista del libro, oltre i limiti conoscibili dell’uomo? Ritorna il percorso volto ad un segno ambizioso e simbolico ne Il terzo aspetto (1987) dove la vecchiaia recupera la giovinezza con la provocazione della morte, dove le emozioni reali (primo aspetto) e quelle del sogno (secondo aspetto) si incontrano in ciò che le rende parallele, cioè il terzo aspetto. Giorgio Saviane, in un passo iniziale del suo romanzo, afferma proprio: “Tornare indietro, cosa nasconde questa utopia?” Il patto scellerato che Mefistofele propone con gli occhi rossi e indiavolati, resta sospeso per tutta la durata del racconto nel mito di Faust. In una sintesi allegorica di una delle prove più convincenti, la vicenda tende a rappresentare un altro mondo, come nell’ultimo romanzo Voglio parlare con Dio. Non è forse utopia voler parlare con Dio, in una sorta di epistemologia salvifica? In questo struggente racconto narrativo, che risuona come il bilancio di tutta un’esistenza, lo scrittore giunge al punto d’approdo più alto delle sue capacità sensoriali e visionarie, immerso nell’avventura della carne che si tramuta in energia spirituale, e utopicamente galoppa nella velocità della luce e nella fisica quantistica.
Non è un mistero che per Giorgio Saviane si potesse spiegare l’esistenza di Dio con lo spirito immortale e invisibile che tiene unita la materia, ma era lui stesso a dire che l’uomo deve ancora progredire molto per capire Dio e, aggiungiamo noi, per elevarsi al di sopra di ogni superstizione. Ma con quale Dio parlare? Gandhi lo sentiva ogni giorno come un flusso, un velo, un’onda bianca e soffice. Forse quando uno è colmo di dolore non riesce a portarne il peso. E però alzare il capo e guardare il cielo lo stesso. E’ lì Dio, si chiede Saviane, auspicando di non perdersi nell’impossibile e nell’ipotetico per rendersi testimoni di un piccolo esistere degli uomini che non saprebbero di essere l’universo? In conclusione, è facile rendersi conto che ci troviamo di fronte ad uno scrittore, come sosteneva Carlo Salinari, del tutto atipico. Il cammino di Giorgio Saviane è stato solitario, ai margini della letteratura ufficiale. Ha cercato di far valere nuove istanze culturali nel segno di un’ideologia umanistica, con valori autentici che gli permettessero di scavare in profondità, nel culto della ragione per rovesciare alcune idee negative, ostative. Ha tentato di annullare norme consolidate, e lo ha fatto letterariamente, ma nel contesto della società civile del suo tempo. L’utopia di Giorgio Saviane rimane la battaglia contro la cronaca, contro la storia presente e sempre in fuga, in un’immagine sovrastorica che contenga le pulsioni liberatorie per un diritto alla felicità, che è l’ultima grande scommessa da vincere. Per questo si dovrebbe far largo ad un nuovo Dio, scriveva già nel 1973, che arricchisca della nostra individualità l’intelligenza del microcosmo e chissà, magari anche delle “sterminate galassie”.
Alessandro Moscè