di Davide D’Alessandro
Ieri sera, alla radio, una ragazza leggeva “la casa dei doganieri”, la poesia più amata di Montale, e piangeva. Leggeva e piangeva. Su “libeccio sferza da anni le vecchia mura” si è fermata un attimo, quasi a riprendere forza. Evidentemente, anche lei spesso il male di vivere ha incontrato e non so se il rivo strozzato che gorgoglia, l’incartocciarsi della foglia riarsa o il cavallo stramazzato siano state le immagini con le quali, come il poeta, sia stata chiamata a fare i conti. Se il calcolo dei dadi più non torna, se il ricordo illude di poter restituire salvezza, occorre fare della ferita la feritoia, per dirla con Carotenuto, il varco, sì il varco, senza il punto interrogativo montaliano, per vivere nuovi giorni che costituiranno futuri ricordi. Il dolore è nella sosta, pur necessaria, nello smarrimento, nell’attesa. La lacerazione, pur necessaria, è il capo del filo da cui riprendere la tessitura della vita. Quelle lacrime, pur necessarie, non resteranno lacrime. Solo chi non ha colto rosa non s’è punto, scrive un altro amato poeta. Ma pensare di stare alla larga dalle rose per evitare di pungersi, vuol dire rinunciare. E chi rinuncia, non può piangere. Può solo morire. Anzi, è già morto. La ragazza no. Lei non è morta. Legge e piange. E vive.