di Davide D’Alessandro
Ferita. Rossa, bruciata, infuocata, insanguinata, mai sanata. Ferita di incontro e di scontro, di luce che acceca, di passati mai risolti, di nodi mai sciolti. Ferita di mancanza, di vuoto che si svuota, di rabbia, di caduta, di calura, di arsura, di malaria. Ferita di ascolto, di muta parola, di sospiri, di respiri, di cammini. Faticosi. Di misure, di incanti, di venature, di luna che si spegne, di tramonti tramandati. Ferita di visione interiore. Interrotta. Spezzata. Ferita legata da fili slegati, allacciati, trapuntati, strappati. Ferita di giornata, di attesa snervata, mutata. Ferita antica, persino amata, mutuata. Da un altro. Da un’altra. Da me. Ferita di specchio, di vetro rotto, frantumato. Ferita che rimanda, ferita alata, che si slarga, che dilaga, che allaga. Ferita da avere, da dare, da restituire. Ferita da essere, ferita dell’essere. Varco che si dischiude, ansa, ansia, discesa che appare. Come il mare, come il caldo dell’estate. Come declinare. Piegare. Curvare. Delineare. Accarezzare. Dispensare. Ferita che richiama, che ama riamata. Ferita sbiadita, lontana, distaccata, separata. Ferita di nuvole tra le nuvole, fredda, amara. Nata, prodotta, alimentata, usurata per essere osservata. Mai curata. Ferita di mistero. Di paura. Ferita cerebrale. Di padre. Di madre. Di funerale. Cerco di cercare. Smetto di cercare. Alludo, bramo, mi ostino, conto, smetto di contare. Da giorni preparo l’evento o è l’evento che mi prepara? Ma è inverno. Sul tetto, sul molo, sul letto. È donna? È uomo? Che importa? C’è un viale, c’è sempre un viale in fondo al viale. A destra la scala, a sinistra l’offesa, in alto Dioniso, mentre Apollo riposa. È fatica la salita, la ferita, il ricordo dei ricordi, la mano, la stretta di mano, il patto, il ticchettio, il rintocco di un’ora già andata. Finita. Terminata. Non parla, se parlo. Ascolta. Sorride. Annota. Ha una sola parola. Accompagna. Suppongo che sappia, che abbia, che legga, che superi, che oltrepassi, che segni il confine, che lo sradichi. Con calma. Col tempo che rimane, se rimane. Mi saluta, mi lascia, non lo lascio. Anche il viale, dopo, è un altro viale. Ha i fiori che prima non aveva, i tulipani; chi li ha messi, da dove sono spuntati? Ardore, dolore, fragore, rumore. E se non sogno? Un volto sogno. Capelli d’oro, che ignoro. Un cancello, una catena, un vento tropicale. Un pensiero d’odio, una luce fioca, un passato che non passa. Affondo, riemergo, sprofondo. Conservo, preciso, confronto. Ho un bisogno. Crollo. Filtro appena interviene un conflitto. Giustifico. Non dormo. La cultura separa, il mondo subisce, si affievolisce, sparisce. Predomina il buio, eppure c’è un solco. Non lo vedo, lo percorro. È una traccia, un segnale, un bastone d’appoggio, un poggio. Per cadere, per naufragare, per liberare. Per accogliere la sofferenza, la dimensione neuronale, per abbattere l’impianto ancestrale, claustrale, mentale. Avevo voglia di creare, ora vorrei ri-creare. Toccare. Plasmare. Fare. Oggi al dottore ho mostrato un impulso originale. Era nel petto, accanto al cuore, ma non dentro. Un’idea, non un’azione. Una privazione. Una domanda senza risposta. Geniale. Innaturale. Essenziale. Come quel quadro alla parete, come quel libro sull’altare. Interpretare, scavare, indagare. Se trovo il nesso, la vicissitudine, la logica. Se Edipo sa che non è esperienza, se non è personale. Anale. Verticale. I ferri a fuoco, il terrore, la cenere che attrae. Smembrare. Disperare. Un’emozione che dura, s’inerpica, squassa, fa male. Divide, unifica, mi guida. La coscienza si rifiuta, non permette all’inchiostro di passare, di restare. Come sulla sabbia. Arriva l’acqua e lo scritto scompare, ma scompare? La pelle ha l’ultimo strato, di scaglia. Si strappa. Non attinge, non assorbe, respinge. Un tempo la nutrivo, la mascheravo. Con la solitudine, una spinta, uno sforzo, un autore che conosco. Rigido. Marmoreo. Eppure fecondo. Incredulo, ritorno. La terza volta. Mi oppongo. Resisto. Ma ammetto. L’ho vista. Era lei. Libera. Ebbra. Minuta. L’ho attesa ma non è venuta. Una patologia non s’inventa. È una frattura, un dissidio, una buca. Una bellezza brutta. Una iattura. Una tortura. Non esce stasera. È un frammento, una poesia senza verso. Radura. L’immagine più vera, più pura. Perdura. Ho tante possibilità. Associo, dimentico, analizzo, soffro, piango, svengo, confronto. Deploro. Non adoro. Chi riempie il vuoto? Apollo. È un’illusione, un riso, un nodo alla gola. Scorsoio. Manca il contatto, l’affronto. Si commuove. Lo sento. Lo pago. Me ne vado, ma ritorno. C’è un corso in fondo. Una fontana, un’acqua piana, una vela di carta, un bambino che canta. A distanza. Poi mi avvicino. Sembro io o sono io, che cambia? Mi guarda, mi lancia una palla, ricambia. Ho un biglietto. Lo preservo, lo nascondo, lo tengo in tasca. Coperto, offuscato. Non è il momento. L’esistenza non cambia. È intensa, assoluta, ambigua. Ristagna. Afferma, nega, impedisce la sostanza. Annega, limita, sovrasta, insorge, spaventa, si dilegua, passa e non passa. S’arresta. Si storicizza. È matta. Giorni lenti, come i giorni lenti. Notti insonni, come le notti insonni. Speranze incerte, come le speranze incerte. Psicoanalisi di un’anima, di una foglia, di una vita, di un cuore. Che batte ancora. Da ore e ore. Per ore e ore. Senza finire. Dolore. Amore.