Che cammino impervio, quello che s’intraprende per raggiungere una parvenza d’identità. Come gli Ebrei, vessati, disconosciuti nella loro religione, negli anni marchiati. Ma ogni tentativo di soppressione, di annichilimento, di disfacimento, ha lasciato lo spazio ad una fede più forte, ad una convinzione radicata nell’intimo; quella stessa consapevolezza che faceva sì che il popolo eletto alzasse la testa ancora una volta e che non si piegasse al bastone. La storia di un popolo che, al di là di ogni convinzione e convenzione, si è ribellato a chiunque si schierasse contro una vocazione. Nel libro Il numero completo dei giorni (nino aragno editore 2014) di Giovanna Rosadini, si vede questo parallelismo, viene evocato come una formula magica (o forse sarebbe meglio dire religiosa) che, prepotentemente, si fa largo nella pagina stampata. Abbiamo, infatti, varie sezioni: “Genesi”, “Esodo”, “Levitico”, “Numeri” e “Deuteronomio”.
Spazia tra un passato remoto, la poesia, si rifà ad un tempo antico, quando gli uomini non conoscevano null’altro che se stessi, di contro ad un presente dove l’essere umano è riconosciuto tale solo in virtù di un percorso, della famiglia che si è costruito. Ecco, un altro tema forte della poetessa, i suoi figli, l’identità di madre, che stempera, ma solo per un battito di ciglia, la vera essenza di se stessa, che torna nuovamente nelle sue parole. Cosa si può essere prima di essere donna, di generare vita? La risposta è tutto. Si può essere popolo, poeta, cuore, fegato, cervello, gli organi più importanti, che formano un’identità non in quanto indispensabili alla vita ma per il loro essere, in un certo senso, immortali. L’unica cosa che resta dopo di noi è il nostro lascito nel mondo, sia questo persona fisica o parole. Resterà sempre una parte di noi, come ben ci esplica la poetessa:
“Saremo noi, se ci sapremo riconoscere,
la terra promessa”
Anche se divenuti relitti, o semplici parti di corpo reclusi in vasi canopi, siamo comunque presenti, la nostra essenza si tramanda nell’aria, in ciò che ci circonda, come un virus, una malattia incurabile di cui, però, non si deve aver paura, anzi, ci si deve forgiare di esso, come se fosse allo stesso tempo scudo e spada contro un nemico invisibile, contro la paura di essere dimenticati.
“Io sono qui, sono l’impronta-
il calco conservato per la pioggia che lo disfa,
la costola scempiata ritornata dentro il fango”
Noi donne siamo come Eva, generatrici di vita, sovvertitrici di equilibri, fondatrici di universi, duttili come oro, invincibili. Le sofferenze della poetessa sono tangibili, reali, incentrate ed incastonate in un tempo che è, nello stesso momento, il nostro e quello dei nostri antenati. Sono legati, questi patimenti, a chiunque sia stato disconosciuto nella sua natura, paragonabili al lungo viaggio nel deserto alla ricerca di qualcosa, fino allo stremo.
Le poesie, all’interno di questo libro, a volte si possono connotare più che altro come aforismi, lievi passaggi di pensiero. Veloci e leggiadri si imprimono nella mente di chi legge, come un segno vergato a fuoco, come un marchio invisibile ma allo stesso tempo indelebile. È un risveglio delle coscienze, una lunga scossa che non porta dolore ma solo consapevolezza.
Non c’è fine nel ricordo, come il serpente Uroboro, che mordendosi la coda crea una continuità fissa eppure perfetta del tempo, questa poesia si cristallizza e va a ritroso, in un’instancabile indagine di se stessi e del mondo, per ritrovare delle radici che, anche se recise, non smettono di allungarsi d’intorno.
È dedicata, la poesia della Rosadini, un uomo fa capolino dai versi e noi ci troviamo ad immaginarlo di fronte a questa Valchiria, padrona del suo passato ma anche del suo futuro, indomita e pronta a combattere.
Diventano un veicolo, le poesie, una sorta di riscatto, di preghiera stratificata e differenziata da rivolgere verso un qualcosa o un qualcuno che si può ritrovare allo stesso tempo nella parte più intima di noi stessi ma anche all’esterno, in quella parte di mondo che non conosciamo ma che è impressa dentro di noi, come un antico retaggio.
I giorni di cui parla il libro sono l’insieme di un’esistenza, dalla nascita attraversando tutte le tappe fondamentali all’interno della vita, a rivivere tutto ciò che è stato, come se la poetessa si fosse riappropriata di una parte di sé che credeva persa per sempre. È la riscoperta, il vedere le cose sotto una luce diversa, tutto questo, la loro fusione, porta ad un insieme di perle di saggezza che ci immettono all’interno di un lungo vortice altalenante di gioie, tristezze e rammarichi, che ci fanno sentire più vicini all’autrice e che, al tempo stesso, ci rendono parte del suo universo, creato e riconosciuto in modo sofferto ma anche dolce.
C’è una dolcezza, una sensibilità stridente, difficile e quasi irreale all’interno di temi così complessi. La ricerca, dentro un mondo senza confini, non avrà mai fine, si potrà risolvere nel solo modo possibile, guardando al passato con una punta di malinconia ma anche di tenerezza, sapendo di aver combattuto una battaglia e di non avere, in fondo, perso. Infatti, come lei stessa ci dice:
“io conto i giorni, e ripasso me stessa a memoria”
Chiara Maranzana