Giovanna Rosadini
Il numero completo dei giorni
Nino Aragno Editore
di Rossella Frollà
«Allora è questa richiesta di benedizione la letteratura?» si chiede Davide Brullo nella postfazione al libro poetico-spirituale di Giovanna Rosadini. L’opera risale i filari delle Parashot, le suddivisioni settimanali del Testo, Torah e si apre come un regalo che ricerca il nostro volto, l’armonia dell’esistere nel suo stesso dire avvolto da un velo ultimo: «Ma dove la luce è più forte anche/L’ombra è più densa e profonda …». «Siamo qui per ritrovarci./Dove l’inverno sa di primavera/e ogni cosa ha una fissità senza/tempo che consegna enigmi». Una musica incisa dai millenni come le preghiere penetra là dove l’intelligenza non può e in ciò che l’altro vuole dire. Desiderata e riportata a velo d’acqua la parte più segreta della nostra vita, inaccessibile «deposta e custodita» nei vasi canopi, chiusa come in prigione ci avverte di una nuova crescita di un rinnovamento nell’anima, di un sussulto dello spirito che rompe con la res umana e ci spinge verso la perfezione. L’ordine terrestre sovrabbonda di prigioni che saldano l’indifferenza all’ignavia e il canto sobrio e interno della parola segna il luogo esatto in cui ogni gesto ogni giorno è giusto e vero e sacro come adempimento di un rito che garantisce ad ogni attimo il suo perdurare nel tempo. E così Dio non si ferma nel corpo delle cose, va oltre le settimane di preghiera che dividono il libro per un dire che non resta solitario gesto di fede ma quotidiano avvio del tempo nella sua storia d’amore con l’immenso.
Nulla va perduto e ogni parola conferma la carne e lo spirito, risale la vita, «[…] piantata nel paesaggio solido,/ottuso. Non abbiamo finestre per addomesticarlo,». Ogni luogo del libro ripercorre un inizio nell’ombra, la partenza, l’attesa come sapore intatto sulla bocca dell’arrivo che ciascuno stenta a riconoscere ma che sente come necessario per riconoscersi come terra promessa. Allora l’Anno sabbatico è l’acqua che infiltra «il corpo-terra accolto dalle strade, /perso alla meta.» ma come sempre ogni cosa si riapre al cielo per «Potersi affidare». Nel Levitico il Guardiano del sonno ci accoglie: «e filtro ogni rumore notturno, trasformandolo/in un tuo sogno». E segue e accompagna tutto ciò che è vita e vulnerabile. Veglia ogni pioggia che disfa e scioglie e rende rovinosi gli argini e lava. La zolla d’argilla che si crea è giacimento degli accadimenti dove anche il male si scioglie e nella nebbia prende il volo, si libera degli sguardi e dei filamenti, si ossigena e si deposita su nuovi adempimenti e gesti verso i raggi, proteso come fragile stelo al risarcimento del bene. L’inesprimibile trova l’aria del mattino e quando si afferma sui volti non esiste falsità nella parola, si percepisce la consapevolezza della sua forza. E il percepibile rivela la realtà integra tra silenzio e significato. Il canto abdica in favore di una parola lontana dalle metafore e dalle analogie, misurata, pensata, prona su un logos silenzioso, all’ascolto del numero completo dei giorni e della sua partecipazione al mondo. Il linguaggio lascia intendere e cela quel percepito che risuona solo in chi ascolta. La consapevolezza attenta e amorevole di fissare con la parola un’esperienza mediata della totalità restituisce il tutto al concreto e alla mente, è l’incontro immediato col pensiero e i luoghi interni, «un’altra forma di esistenza» per intero: «Fantasmi nell’imponderabile, dileguiamo/riuscendo a sentirci ancora interi, quell’edificio/che eravamo ieri; mentre altrove si salda/la sostanza, nel magma nero dove pulsa,/incontrastata, un’altra forma d’esistenza …». Questo libro è la preghiera che scandisce i giorni perché nessuno di essi vada perduto, «scavando ancora/nella carne viva:» con la volontà e l’esercizio diretto all’intuere, considera contempla. Allora la parola esce per svolgere la sua attività e il suo lavoro fino a sera, a guardare dentro i nostri mari grandi e vasti e una benedizione arriva dalle parole, una speranza:
Non bastano le parole a dirci l’ora,
il germoglio che attraversa la neve,
la pianura fertile che siamo ridiventati:
ma i semi di questa nostra polpa
sbocciano parole, e le parole sono tralci
che ci tengono ancorati alla storia
che ci sta narrando, che ci stiamo raccontando.
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