Quando la poesia è contro

Guido Davico Bonino nel suo libro Poeti-contro, Maledetti e ribelli dell’Ottocento francese (Genesi Editrice, Torino 2013), ha il grande merito di scompaginare ogni schema e catalogo, di darci una storia della poesia improntata sugli autori e sulle opere e non già su più o meno astratti criteri metodologici.
Non che l’autore neghi che siano esistite le tre correnti fondamentali che hanno occupato la scena poetica francese: Romantici, Parnassiani e Simbolisti. La partecipazione ad una di questa correnti non ha, però, mai implicato un’adesione totale ed incondizionata; elementi diversi venivano ad intrecciarsi nella prassi e nei risultati. Del resto gli schemi e le scuole hanno una certa utilità come metodi empirici ed estremamente imperfetti di individuare il corso della storia letteraria ma, diventano estremamente negativi quando li si calano sulla vita concreta ed effettiva dei testi e degli autori. Altro elemento di fondo di questo libro è l’avere inserito i grandi in un panorama vastissimo. I Baudelaire e i Mallarmé sono dentro questo paesaggio, ne rappresentano i risultati più importanti, ma non sarebbero concepibili come individualità staccate, come alberi solitari che si innalzano su una piana brulla.

Sembrerebbe impossibile trovare elementi in comune tra i versi di Pierre-Francois Lacenaire, intrisi di rabbia e di derisione nei confronti del sociale, e i toni estremamente esistenziali e riparati di quel Mallarmé che ha fatto scuola a tanta poesia novecentesca non solo francese. Lo sappiamo perfettamente noi italiani che tanto dobbiamo, in particolare nella prima metà del ‘900, alla grande tradizione francese.
Davico Bonino, nella nota biografica ci dice che Lacenaire fu disertore, falsario, ladro e assassino. I suoi versi suonano tragici ed irridenti e possono lontanamente ricordare il Baudelaire che asseriva la miseria del mortale nella cui vita non si fosse affacciato lo stupro, il veleno, il delitto. Certamente Baudelaire metteva in questo suo discorso una tensione di tipo più letterario ed allegorico mentre in Lacenaire le parole sembrano avere una presa diretta sulla vita e sulle cose.

“Io sono un ladro, voi siete re,
operiamo d’intesa da buoni fratelli”

Ed ancora

“Sono ringhioso come un mastino,
malizioso come una vecchia scimmia:
in Francia sarei un ottimo funzionario,
su, fatemi prefetto di polizia”

In questi versi non c’è una contestazione di tipo ideologico, nessuna voglia di cambiare il mondo e di indicare i colpevoli: il re e il poveraccio sono pronti ad operare con le stesse bassezze. L’animo umano è comunque spregevole.
Difficile trovare in Italia una rabbia così totale ed incondizionata, un essere contro senza se e senza ma: da noi c’è sempre qualche causa sociologica che fa da sfondo alla rabbia e alla disperazione.

“La serena ironia dell’immutabile azzurro
opprime, bella e indolente come i fiori,
il poeta impotente, che maledice il suo genio,
attraversando uno sterile deserto di Dolori.”

Anche per chi si rifugia dentro l’azzurro, lontano dal consorzio umano, rimane qualcosa di irrisolto e di tragico. Mallarmé che pure ha cantato i fauni, le ninfe e i boschi di una mitica classicità, non ha mai trovato tra gli alberi quella serenità così cara a Teocrito e Virgilio, magari velata di una lieve malinconia. La modernità irrompe nell’Arcadia e la trasforma: l’oscurità, il tedio e il dolore sono una compagnia che mai ci abbandona e dalla quale non ci può proteggere neppure la radura più remota e riparata.
Dunque, nella diversità enorme delle percezioni e degli esiti, un elemento accomuna tutti questi autori: essere contro. A che cosa si è contro? Alla società, certo, ma soprattutto al destino di finitudine e di dolore che attende ogni uomo. Si può tentare di annegare questo sentimento nel bere e nel sesso come fa Verlaine:

“Bevi per dimenticare!
L’acquavite è una tipa che porta la luna
nel suo grembiule.”

Autori minori hanno individuato forme e temi che sono stati poi ripresi da altri che hanno raggiunto una fama universale:

“Ed è così che, dinnanzi ad un fuoco di sterpaglie, facevano combutta un Procuratore del Parlamento, che correva la cavallina, e i guasconi del corpo di guardia, che tutti seri contavano le bravate dei loro malconci archibugi.”

Baudelaire ammise di avere avuto da questi testi di Aloysius Bertrand lo spunto per i suoi Petits poèmes en prose. Notiamo certo la differenza fra il discorso molto più sociale e “quotidiano” di Bertrand e la dimensione universale di Baudelaire. Si potrebbe dire, almeno a grosse linee, che i minori preferiscono un terreno più quotidiano e “civile” mentre i maggiori insistono di più sulla condizione umana in quanto tale, sulla difficoltà di convivere con sé e con l’altro che nessuna forma di organizzazione sociale può inficiare in profondità.

Da questo libro si ricava un altro elemento di fondo: l’essere contro è stata una costante tra le più importanti della poesia francese ottocentesca. Non è un caso che milioni di adolescenti, ma anche persone di tutte le età, abbiano letto con entusiasmo, magari anche con una dose di conformismo, quei “maledetti” divenuti, probabilmente, i poeti più noti al mondo. Davico Bonino, in questo testo, ha sbaragliato ogni conformismo con un discorso preciso dove i Baudelaire, i Rimbaud e i Verlaine vivono sì, nella loro assoluta e irripetibile unicità, ma nello stesso tempo fanno parte di un paesaggio poetico di cui anche i “minori” sono elemento fondamentale.

di Umberto Piersanti

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