di Davide D’Alessandro
L’altra sera ho rivisto “Another woman”, uno dei capolavori di Woody Allen. La protagonista, Gena Rowlands, è il film. Poi, Ian Holm, Gene Hackman, Mia Farrow e Sandy Dennis aggiungono i colori richiesti. È un film sul fallimento di chi non riesce a vivere il sentimento. All’inizio, Marion, la protagonista, si presenta: «Se qualcuno mi chiedesse di fare un bilancio della mia vita a cinquant’anni, probabilmente direi che sono riuscita a realizzarmi e come persona e come professionista. Non andrei oltre. Non che abbia paura di rivelare lati più oscuri di me stessa, ma ho sempre pensato che si dovrebbero lasciare le cose come stanno, se funzionano».
E Allen, nel libro intervista con Stig Bjorkman, spiega: «Marion non aveva fatto le scelte giuste nella vita. Aveva compiuto delle scelte sicure e fredde, ma mai quelle giuste. Ha fatto scelte sicure, ma non rischiose. Per essere rischiose, avrebbero dovuto essere delle scelte in cui lei non sapeva cosa l’attendesse. Ma lei ha fatto delle scelte sicure. Voglio dire, Ian Holm (interpreta il marito) era una scelta priva di rischi, un medico, un uomo affermato, una persona sicura, fredda come lei. Gene Hackman (interpreta l’amore che poteva essere e non è stato) era una persona calda, rude, sensuale».
All’improvviso, però, la (finta) sicurezza apre varchi alla speranza. Non a caso la donna incinta, che va dallo psicoanalista della porta accanto, si chiama Hope. Sarà lei, con il suo vissuto e le sue lacrime a costringere Marion a fare i conti con il proprio dolore, con le proprie ferite. Quelle ferite alle quali si era imposta di non voler guardare. Di non volerle toccare. Ma càpita a tutti, prima o poi, di essere chiamati a guardarsi dentro. È l’unica occasione per piangere lacrime vere, riconsiderare il film già vissuto e aprirsi a quello che possiamo ancora girare. Con speranza.