“Patrie poetiche. I luoghi nella poesia italiana contemporanea” è il volume curato da Elisabetta Pigliapoco ed edito da Pequod nel 2010. Pubblichiamo di seguito l’intervista di Alessandro Moscè alla curatrice.
Patrie poetiche è un libro che raccoglie vari interventi critici. E’ proprio l’eterogeneità delle disamine che risalta immediatamente agli occhi. Come è nata l’idea di unire varie firme intorno ad un progetto editoriale?
Il libro prende le mosse da un’occasione precisa: un convegno che si è tenuto ad Urbino che si intitolava “I luoghi dei poeti”, organizzato da Umberto Piersanti. Dalla ricchezza dei contributi e delle prospettive critiche è nata l’idea di testimoniare le indagini critiche che sono fiorite in questi ultimi anni intorno al rapporto tra luogo e poesia contemporanea, allargando quanto più possibile l’orizzonte di analisi. Nonostante il luogo e il tempo siano state da sempre le coordinate fondamentali della finzione letteraria e perciò anche della creazione poetica, le tendenze dominanti dagli anni ’60 in poi avevano, per così dire, estromesso i luoghi, così come i contenuti in generale, dalla poesia. L’imperativo era sperimentare, giocare – se mi è consentito questo termine – con la lingua, con le forme, spezzando ogni legame con la tradizione. Eppure tanti autori hanno continuato a sentire la forza di una poesia che sentiva l’esigenza di comunicare a partire dai dati dell’esperienza, come il vivere in un determinato territorio, che condizionava peraltro la loro voce. Si è trattato dunque di ribadire con forza, attraverso il contributo di critici prestigiosi, che il rapporto tra poesia e luogo ha dato vita e continua ad alimentare non solo la più bella poesia italiana ma anche quella di tante altre parti del mondo.
Quali le sono sembrati gli elementi di maggiore coesione nell’idea del luogo inteso come orizzonte storico-geografico?
In effetti occorre specificare che in questo caso il termine luogo non equivale a spazio od ambiente, non si vuole intendere il semplice sfondo ove proiettare memorie o vicende, si tratta in realtà di un vero e proprio territorio, una terra d’origine o d’elezione che dialoga con il poeta, influenza il suo fare poetico, dando vita ad una relazione reciproca: il luogo “detta” la poesia, e la poesia lo reinventa, lo eterna, cantandolo per sempre. Fin dall’infanzia, certe immagini impressionano la retina di chi le vede, e questo rimane per tutta la vita; alcuni paesaggi sembrano determinare la poesia di chi li racconta nei versi; a sua volta il poeta li può trasfigurare, trasformare, renderli in maniera anche inedita, ma è indubbio che quei versi dal quel luogo sono originati; al contempo quella poesia ha trasformato un territorio particolare in una terra universale, un luogo dell’anima: una patria poetica.
Alcuni marchigiani sono stati e sono tuttora i fautori di un’esperienza poetica legata proprio ai luoghi. Quali poeti connotano di più questa appartenenza e questa identità?
E’ stato osservato da un grande poeta e critico marchigiano, Remo Pagnanelli, purtroppo scomparso prematuramente, come ai poeti marchigiani non sia dato sfuggire al magistero leopardiano, soprattutto in relazione al rapporto che essi instaurano con il paesaggio: un paesaggio calmo, di colline che degradano dolcemente verso il mare, che si imprime nello sguardo di chi lo abita, e che con la sua natura ordinata, armonica, priva di asprezze, in qualche modo ha finito per plasmare la produzione letteraria della nostra regione, caratterizzata – escluse talune eccezioni – da un “classicismo non classicistico” , per usare una formula cara a Franco Fortini. La maggior parte dei poeti marchigiani ha intessuto un rapporto particolare e intenso con i propri luoghi. Il Novecento, che ha prodotto nelle Marche, altissimi risultati, ha visto poeti come Volponi, con il suo odio-amore per Urbino, Matacotta e i suoi “Orti marchigiani”, Bartolini e la sua Cupramontana, Scataglini con l’Ancona del mattatoio, del cimitero ebraico, dei pescatori, fino ad arrivare ai nostri contemporanei come Piersanti e le sue Cesane, D’Elia con la costa adriatica pesarese, Scarabicchi e i luoghi della memoria, ma anche i più giovani avvertono il richiamo dei luoghi: Gezzi, Moscé, Paoli, solo per fare alcuni nomi.
Il miracolo di una lingua poetica si innerva in ciò che lei definisce un “angolo prospettico”. Quali conclusioni può trarre dal suo lavoro di curatela?
Questo lavoro ha dimostrato come si possa fare grande poesia anche da un minuscolo brano di terra, che può irradiare la sua luce allargando a dismisura il suo orizzonte, e come al contempo l’infinito possa specchiarsi e concentrarsi in un angolo di mondo. Questo libro vuole ricordare a tutti che per affrontare e apprezzare alcuni poeti non si può prescindere dal luogo che essi hanno eletto come motore immobile della loro ispirazione poetica, anche quando a volte non viene affatto mostrato. A questo proposito vorrei citare Umberto Saba che ricordava, in un suo discorso alla città di Trieste, che il paesaggio di quella città era presente in molte sue poesie, anche quelle – ed erano la maggioranza– che parlavano di tutt’altro, concludendo così: “il cielo di Trieste sta sopra tutte le mie poesie”.