Intervista apparsa Domenica 1 aprile sul Corriere Adriatico
Sono all’Osteria Strabacco, mitico luogo anconetano di incontri, anche letterari, e cene di dopo teatro, spesso in compagnia di attori, romanzieri e musicisti. Oggi sono a tavola con il poeta Umberto Piersanti. L’argomento è l’antologia “Oh mia patria. Versi e canti dell’Italia unita” (3 volumi, Ediesse, € 100). È importante celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia attraverso la poesia. Poiché, dice Piersanti, se l’Italia esiste, anche come Stato, è perché nei secoli XIII-XIV è esistita una lingua italiana, nata, innanzitutto, attraverso la letteratura. Nessuna nazione europea ha un debito così grande nei confronti della letteratura come l’Italia.
Ma torniamo alla grande antologia curata da Vanni Pierini e ai suoi inizi cronologici.
L’anno di partenza è giustissimo: il 1796, ovvero l’arrivo di Napoleone in Italia, e con lui la nascita dell’idea nazionale. Basti pensare al “Regno d’Italia”: è la prima volta dopo secoli che questo nome risuona. Senza Bonaparte e, per contrasto, senza la reazione delle masse contadine in difesa della religione e dei valori costituiti, non sarebbe nata una coscienza italiana.
Quali sono state le scelte antologiche operate dal curatore?
Pierini ha deciso di raccontare l’Italia attraverso la poesia. Non solo quella impegnata socialmente, tipica dell’Ottocento; ma anche la poesia come percezione del mondo, del senso delle cose, e il suo atteggiamento verso l’amore, per esempio, o il lavoro, la guerra, i costumi degli italiani.
Qual è il ruolo delle Marche in questa antologia?
Come sa, il curatore è un marchigiano, che nelle Marche ha fatto cose importanti, e oltre a essere un poeta in proprio, per anni ha diretto Musicultura a Recanati. Quanto al resto, proprio le Marche vengono da tempo riconosciute come un’importante fucina di poesia a partire dal secondo Novecento, con autori dotati di una forte connotazione civile, come Volponi e Di Ruscio e, fra i cinquantenni, D’Elia, che dell’impegno ha fatto la spina dorsale della propria poesia. Poi c’è la mia poesia esistenziale, anche, che non è solipsistica, ma racconta molto del costume, senza mai restringersi in una dimensione puramente interiore. E Scataglini, ovviamente – nel quale hanno un ruolo non qualsiasi la disillusione per l’esperienza sovietica e il tragico decollo di una speranza – ed Eugenio De Signoribus, al quale una parte della critica riconosce giustamente uno statuto di poeta anche civile. E ancora dopo, il giovane Moscè, il quale possiede uno sguardo capace di cogliere da volti e luoghi specifici, una dimensione universale. Ma il discorso è ancora lungo e ampio. Penso all’impegno di Garufi e Pagnanelli, Pizzingrilli, Scarabicchi, Gezzi…
E le donne?
A parte Sibilla Aleramo, pioniera di tante battaglie politiche e femministe, che peraltro ha avuto un ruolo anche per Matacotta, c’è Joyce Lussu, che ha fatto dell’impegno politico e letterario la ragione della sua vita.
Sfogliamo insieme le pagine di questi tre volumi. È facile comprendere in che senso si tratta di un’opera destinata a restare, e accennare al modo in cui anche la letteratura concorre a delineare un’identità nazionale. L’ultimo volume si chiude con delle poesie dedicate all’Italia. Ce ne è una di Piersanti, ambientata nelle Marche, in particolare a Monsano, un’ode al Paese, “quest’umile Italia / che resiste, che tenace s’inoltra / in anni scuri”.
di Valentina Conti